Giorgio Vittadini presidente della Fondazione per la sussidiarietà: “Senza ricostruzione dell’uomo, non si gestiscono i problemi” Difendere ciò che è per il bene comune

Giorgio Vittadini, professore ordinario di Statistica Metodologica presso il Dipartimento di Statistica e metodi quantitativi dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, presidente e fondatore della Fondazione per la Sussidiarietà che dal 2002 realizza attività di ricerca, formative ed editoriali su temi socio-economici, nonché fondatore della Compagnia delle Opere, associazione d’imprese ispirata alla Dottrina sociale della Chiesa, traccia un bilancio dell’ultima edizione del Meeting di Rimini, di cui è tra gli organizzatori.
Presidente, al centro della settimana a Rimini il tema di una eredità da riconquistare. Quale eredità lascia il Meeting di quest’anno?
Una persona ha una tradizione, bella o brutta che sia. Chi pensa di far fuori una tradizione brutta per vivere, è già sconfitto. Ma perché mi serva devo criticare la tradizione, devo metterla al vaglio, devo vedere che cos’è buono e cos’è cattivo e, quindi, rilanciarla nel presente. Questo è un percorso che ogni persona può fare, e se si saltano questi percorsi o si è nostalgici del passato o si è alla ricerca di una novità che non ha spessore e, quindi, non si è in grado di riguadagnare niente. Chi butta via tutto o chi si guarda indietro è uno sconfitto, non capisce il mondo che cambia. L’eredità del Meeting è la percezione di una critica serrata di ciò che è capitato, per vivere oggi. D’altra parte, nell’udienza con Comunione e Liberazione il Papa ci ha detto: “Non tenete don Giussani nella tomba”. La critica migliore è con i fatti, con gente che si mette insieme e non guarda al passato.
Cos’è emerso dagli incontri e dagli eventi culturali?
Sono due i fili rossi che hanno segnato il Meeting di quest’anno. Il primo è legato al fatto che si vede in tutto questo cambiamento d’epoca, senza soluzione di continuità dai politici nelle più alte cariche ai vari uomini di cultura, che c’è bisogno di una costruzione dell’io. Il primo messaggio è quindi sull’aspetto dell’educazione della persona, che in questo Meeting anche generazionalmente ha visto protagonisti molti giovani. Al Meeting i problemi sono sempre posti, a qualsiasi livello, come testimonianza sia dal punto di vista dei gesti di carità che da quello dell’impresa. Noi abbiamo sempre questa costante: partiamo da quello che c’è, da quello che si sta facendo, perché la testimonianza è l’esempio da cui si può trarre una legge generale.
Il secondo filo rosso?
È quello del rilancio dei corpi intermedi: tutti hanno capito che senza corpi intermedi non si gestiscono gli immigrati, non si fa impresa, non si rilancia il lavoro, non si costruiscono luoghi di pace e di convivenza tra i popoli.
Invece, problemi e preoccupazioni odierni arrivano maggiormente proprio da chi sembra voler far tutto da sé…
È evidente. Le leadership precedenti alle attuali e alcune che le hanno sostituite hanno l’idea che: “Parlo con l’io senza le intermediazioni”. I due fili rossi del Meeting di quest’anno segnano qualcosa che non va di moda ma che comincia ad essere percepito: è finita l’epoca del “ci penso
io, levatevi dai piedi”. Questo non funziona più: i Trump, le Hillary Clinton, gli Obama e i Bush che saltano i rapporti che ci sono e fanno le guerre. O i Sarkozy e i Putin… Non funziona più l’idea che tu salti qualcosa che c’è, qualcosa che sta avvenendo per uno schema mentale e ideologico.
Si è parlato molto di lavoro, tema al centro della Settimana sociale dei cattolici italiani…
L’incontro in cui si è presentato l’appuntamento di Cagliari è stato interessantissimo. Ho visto una totale sintonia con il modo in cui la Chiesa si pone oggi rispetto al tema del lavoro. L’idea è quella di affrontarlo partendo dai problemi che ci sono, non da un’analisi teologico-filosofica ma dalla dottrina sociale in atto. E la buona pratica è un affronto del problema che ti dà un esempio: se non guardo l’esempio, non ho neanche la capacità analitica.
Quali sono i temi principali che il Meeting consegna al dibattito italiano?
Ne segnalo quattro. Innanzitutto quello dell’istruzione, che significa autonomia e parità della scuola e rilancio degli investimenti in capitale umano. Perché per noi sviluppo e lavoro nascono da un investimento in capitale umano. Di autonomia e parità della scuola ne parliamo da 30 anni e al Meeting abbiamo visto come su questo è nato un soggetto culturale, mentre prima avevamo muri contro muri. Questi percorsi culturali ci metteranno degli anni ma arriveranno alla fine.
E poi?
C’è il tema del lavoro, inteso come aiuto a chi investe, occupa ed esporta. Basta con politiche globali, serve una politica economica sul tema del lavoro e dell’impresa che parte dall’incentivare i tentativi in atto. Bisogna poi affrontare in modo realista il tema demografico, pensando che a questo si lega il tema dell’immigrazione. Possono essere pensate tutte le regole che si vuole, ma l’Italia multietnica è un’enorme possibilità che ci evita di defungere come Paese. Infine, il superamento della giustizia come giustizialismo. Al Meeting si è parlato di giustizia riparativa che prevede l’incontro tra chi ha commesso il reato e le vittime. Un invito al superamento di 30 anni di concezione che ci ha bloccato, una concezione giustizialista, del bene contro il male, con l’uso politico della giustizia. Sono temi sui quali il cattolico, che è colui che partendo dalla sua identità genera una convergenza pluralista, non difende la sua fetta per i cattolici ma ciò che è per il bene comune.
Alberto Baviera (Sir)

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