RIFLESSIONI

 «Sono stanco anch'io. Il vero riposo? Affidarsi a Dio»
di Massimo Introvigne
La nuova Bussola Quotidiana, 2 aprile 2015

Presiedendo la Messa crismale del Giovedì Santo in San Pietro, Papa Francesco ha pronunciato una lunga omelia, dedicata soprattutto – ma non solo – ai sacerdoti e incentrata sui temi della stanchezza e del riposo. Il Pontefice ha esaminato tre diverse forme di stanchezza – la stanchezza del lavoro apostolico, la stanchezza che viene dal demonio e la pericolosa «stanchezza di se stessi», una sorta di depressione che porta a continuare nell’apostolato come routine e non come gesto di amore – e ha indicato come antidoto il vero riposo, che non è quello della «società dei consumi» ma l’abbandono fiducioso alla compagnia e alla protezione di Dio.

Il Papa è partito dal Salmo 88, dove il Signore parla di Davide: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”». «È molto bello», ha commentato Francesco, «entrare, con il salmista, in questo soliloquio del nostro Dio». Egli parla anzitutto dei sacerdoti, «pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica». La stanchezza è una caratteristica fondamentale non solo dei sacerdoti, ma di chiunque si dedica alla missione, «dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio». Alla stanchezza, confida Francesco, «penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io». Ma la stanchezza del sacerdote e dell’apostolo, ha aggiunto, «è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre». Inoltre, siamo «sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio mio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei».

Capire la stanchezza significa anche capire che cos’è veramente il riposo. Talora «ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione». Gesù stesso ci rivela che cos’e il vero riposo cristiano: «Venite a me quando siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). «Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova». C’è una pedagogia del riposo. Dobbiamo imparare a riposare. Una «chiave della fecondità» dell’apostolato «sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia». Su questo il Papa ha invitato i sacerdoti, e chiunque è impegnato nell’apostolato, a uno dei suoi consueti esami di coscienza: il riposo è il momento in cui mi affido all’amore di Dio? «O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri, ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare?». E ancora: «So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – a essi piace stare in mia compagnia –, nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me e me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: “So in chi ho posto la mia fede” (2 Tm 1,12)?».

Il sacerdote – ma vale per chiunque partecipi al lavoro apostolico e missionario della Chiesa – è invitato dalla Scrittura a «curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti. Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso». Compassione significa capacità di gioire con chi gioisce e piangere con chi piange. Le emozioni, però, moltiplicandosi «affaticano il cuore». Se davvero entriamo nel cuore degli altri, «il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso». Qui abbiamo bisogno del riposo del Signore. La stanchezza, ha detto il Papa, non è sempre un male. C’è «una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia». La stanchezza di chi moltiplica gli sforzi del suo apostolato, perché vede che vanno nella direzione giusta. Ma c’è anche una stanchezza malsana, che porta a fare apostolato «con la faccia acida, lamentosi, o, ciò che è peggio, annoiati». E c’è «quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla». Il demonio e i suoi seguaci non si stancano, ma cercano di stancare noi. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta», ma occorre nello stesso tempo difendersi dal male. «Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare: è un’abitudine importante, imparare a neutralizzare. Neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere».

Quando ci troviamo davanti «allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi», che spesso vengono davvero dal demonio, ricordiamo la parola di Gesù: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). «Questa parola ci darà la forza». Infine, c’è «la stanchezza di sé stessi» che è «forse la più pericolosa». Perché le altre due – la stanchezza del lavoro apostolico e la stanchezza indotta dal diavolo – «provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi» per evangelizzare. Mentre la stanchezza di sé stessi «è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro». Questa stanchezza al Pontefice «piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: “Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore” (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio».

Ogni anno il Papa insiste sul rito della lavanda dei piedi, cui attribuisce un’importanza che a qualcuno può sembrare perfino eccessiva. Qui spiega perché è così importante. Perché il cristiano stanco di se stesso continua forse a pregare, ad andare in chiesa, perfino a fare apostolato, ma lo fa con la «mondanità spirituale» – che per Papa Francesco non è l’amore delle ricchezze (quella è la mondanità materiale) ma il compiere opere buone per se stessi o per puro umanitarismo, non per Dio – e lo fa avendo dimenticato il «primo amore», quell’amore per il Signore che lo aveva spinto all’origine a scegliere di essere cristiano, apostolo, sacerdote, laico impegnato nella missione. Con la lavanda dei piedi il Signore «si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome». Secondo la cultura ebraica «nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo». E «nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore.

Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute». Con la lavanda dei piedi «il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. Questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava». Contempliamo in questi giorni il Signore morto e risorto. «E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma stanchi bene!».

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Come stanno legalizzando la droga senza discutere

di Alfredo Mantovano
La nuova Bussola Quotidiana, 13 maggio 2014


Cerignola (Foggia), 21 maggio 2004. P.L. viene trovato con un chilo e 620 grammi di cocaina: la perizia poi dirà per con esso si possono confezionare 5.500 dosi. Viene arrestato e nel novembre 2004 è condannato dal g.i.p. del tribunale di Foggia a otto anni di reclusione. La difesa fa appello e sostiene che la cocaina che lui deteneva era per uso personale, che l’aveva acquistata in Colombia, e che l’aveva portata con sé in Italia occultandola fra strumenti sanitari in uno zainetto: e dal passaporto risulta che effettivamente egli si è recato in Sud-America qualche mese prima. Nel settembre 2005 la corte di appello di Bari lo assolve con la formula che il fatto non costituisce reato; nella motivazione, dopo avere richiamato la giurisprudenza della Cassazione in materia, i giudici dell’impugnazione affermano che spettava all’accusa dimostrare un uso diverso da quello personale; che dal concetto di uso personale non può escludersi aver costituito una “scorta” per sé; che il criterio della quantità non è di per sé solo significativo di attività di spaccio; che P.L. non portava alcun bilancino, eccetera.

Sentenze di questo tipo erano pronunciate non infrequentemente fino al 2006: costituivano l’eco di un atteggiamento tollerante verso la droga, si inserivano nel solco della prima legge intervenuta nel settore, nel 1975, che a sua volta faceva da eco all’ideologia sessantottina; ovviamente concorrevano alla moltiplicazione dello spaccio e del consumo. Nel febbraio 2006 la musica cambia: col varo della legge Fini-Giovanardi per ogni sostanza stupefacente viene fissato un limite quantitativo (per la cocaina, 250 mg), al di sotto del quale si applicano soltanto sanzioni amministrative, ma oltre il quale scattano le sanzioni penali, se pure con criteri di gradualità e con misure alternative alla detenzione più ampie, correlate a percorsi di recupero. Grazie a quella legge, che contiene altre modifiche importanti, prima fra tutte la eliminazione dell’antiscientifica distinzione fra droghe “leggere” e “pesanti”, negli anni seguenti si sono registrati, a dispetto di tante falsificazioni mediatiche, risultati positivi in termini di dimezzamento dei morti per uso di stupefacenti, di decremento dei consumi, di aumento dei recuperi (ne abbiamo dato conto in precedenti interventi sulla Bussola).

Da qualche mese si stanno rideterminando le condizioni perché lo spartito musicale torni a essere quello di Woodstock, grazie al cocktail costituito dalla sentenza di febbraio della Corte costituzionale, dal decreto legge del Governo di marzo, e dalle aggiunte inserite dalla Camera ad aprile. Per la conversione in legge del decreto resta solo il passaggio dall’Aula del Senato, dove a partire da oggi l’esame del provvedimento sarà completato: per non far decadere il decreto, l’approvazione definitiva dovrà avvenire entro il 20 maggio. Sono quattro i profili che preoccupano di più nelle nuove norme:

Il ripristino della non punibilità quando vi è l’“uso personale”. Nella restaurata formulazione questa destinazione, oltre il limite di quantità, viene desunta da elementi come le “modalità di presentazione” della droga, il “confezionamento frazionato” o “altre circostanze dell’azione”: ciò fa rivivere la giurisprudenza mirabilmente rappresentata dalla sentenza della Corte di appello di Bari, che ricordavo prima. Sarà il caso di non porre ostacoli a chi fa il su e giù dalla Colombia, e non solo, portando con sé chili di polvere bianca;

La depenalizzazione di fatto dello spaccio, grazie a un emendamento proposto dal Governo e approvato dalla Camera, che fa scendere la sanzione per la cessione qualificata “di lieve entità” da un minimo di sei mesi a un massimo di quattro anno di reclusione (rispetto al minimo di un anno e al massimo di cinque prima in vigore). Il nuovo tetto massimo impedisce l’arresto obbligatorio di chi sia colto nell’atto di spacciare; il nuovo limite minimo permette, con le attenuanti generiche e con le diminuenti degli eventuali patteggiamento o rito abbreviato, di ridurre la pena anche a tre mesi, e quindi di convertirla in sanzione pecuniaria. Dunque: chi spaccia per strada rischia molto meno di essere arrestato e, se processato, se la cava pagando un ticket;

Il ripristino della distinzione fra droghe “pesanti” e “leggere”, su cui ci si è soffermati nelle settimane passate. Un emendamento del Ncd, visto con favore da un editoriale del Corriere della sera, avrebbe voluto distinguere fra droghe pesanti e leggere nell’ambito della stessa cannabis e dei suoi derivati, sulla base della percentuale di principio attivo di volta in volta riscontrato nella sostanza sequestrata: la cannabis oltre una percentuale fissa sarebbe “pesante”, al di sotto “leggera”. L’emendamento è stato però ritirato e sostituito da un ordine del giorno, approvato dalle Commissioni, che impegna il Governo a inserire una norma di questo tipo in un provvedimento futuro. Ciò conferma la consapevolezza che per lo meno questa disposizione è errata; ma non compete al Parlamento, quando esamina un testo di legge, modificarlo direttamente, senza delegare il Governo, se lo ritiene sbagliato?

La soppressione di fatto del Dipartimento antidroga della Presidenza del Consiglio. Alla Camera è stato approvato un emendamento che ne trasferisce le competenze all’Istituto superiore di sanità: nella imminente eliminazione delle strutture inutili, che sorte avrà un dipartimento così depotenziato? Eppure è una struttura che ha svolto un ruolo importante, di coordinamento dell’attività antidroga di larga parte dei ministeri: visto che nessuno in precedenza ne aveva messo in discussione l’esistenza, non è malizioso concludere che viene punito per avere il suo direttore illustrato al Parlamento, nel corso delle audizioni, i risultati positivi della Fini-Giovanardi e la non leggerezza della cannabis oggi in commercio. È al tempo stesso un messaggio grave rivolto verso chiunque svolga un ruolo di supporto tecnico al Governo o al Parlamento; il messaggio è che se si dicono cose vere, ma sgradite al manovratore, si persevera nell’errore e si elimina chi l’ha segnalato.

Sconcerta che quanto fin qui riassunto non abbia scoraggiato i fautori della demolizione della legge del 2006, né abbia motivato coloro da cui ci si sarebbe attesi una difesa più convinta di quelle norme. Sconcerta che dalla discussione parlamentare non sia emersa piena consapevolezza di tutti gli effetti devastanti che comporterà la nuova legge. Sconcerta che, a fronte dei passaggi prima illustrati, non ci si prenda la briga di confutarli, o di spiegare perché l’interpretazione critica che se ne fornisce sarebbe errata. Sconcerta, soprattutto, che non si colga il filo rosso ideologico post-sessantottino che lega insieme questa vicenda parlamentare con le nuove norme che si vorrebbero introdurre sulle unioni civili, sull’omofobia, sul divorzio sprint, e la ripristinata possibilità di fecondazione eterologa. Che prima di tutto arrivi in porto la riforma degli stupefacenti ha un senso logico e storico: il logo dello spinello libero, e di buona qualità, è il simbolo più adeguato per una Nazione che va in fumo.
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    Alleanza Cattolica

In vista delle elezioni del mese di maggio

di Mons. Luigi Negri
Messaggio alla diocesi, 12 aprile 2014


Carissimi figli e figlie dell'Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio,
in vista delle elezioni del mese di maggio sento il dovere di indirizzarvi un breve ma fondamentale messaggio. Come Vescovo la mia prima inderogabile missione è l'annuncio del Vangelo quale via della libertà, della responsabilità e della salvezza. Nel Vangelo che vi debbo annunciare è contenuta anche una precisa concezione dell'uomo e di tutta la sua realtà, che costituisce il nucleo portante della Dottrina Sociale che la Chiesa ha sempre proclamato e testimoniato.
Si tratta dei “principi non negoziabili” che sono il patrimonio di ogni persona, perché inscritti nella coscienza morale di ciascuno, ed in particolare costituiscono il criterio ineludibile per i giudizi e le scelte temporali e sociali del cristiano. Li elenco sinteticamente: la dignità della persona umana, costituita ad immagine e somiglianza di Dio, e quindi irriducibile ad ogni condizionamento sia di carattere personale che sociale; la sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, indisponibile a tutte le strutture ed a tutti i poteri; i diritti e le libertà fondamentali della persona: libertà religiosa, della cultura e dell'educazione; la sacralità della famiglia naturale, fondata sul matrimonio, sulla legittima unione cioè fra un uomo e una donna, responsabilmente aperta alla paternità e alla maternità; la libertà di intrapresa culturale, sociale, e anche economica in funzione del bene della persona e del bene comune; il diritto ad un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, come espressione sintetica della persona umana; l'accoglienza ai migranti nel rispetto della dignità della loro persona e delle esigenze del bene comune; lo sviluppo della giustizia e la promozione della pace; il rispetto del Creato.
Ecco l'orizzonte immutabile di ogni giudizio, e del conseguente impegno del cristiano nella società, ma anche la chiave di valutazione delle persone, dei raggruppamenti partitici e dei rispettivi programmi, affinché si favorisca la promulgazione di leggi coerenti con le fondamentali esigenze della dignità umana. Di conseguenza la coscienza cristiana, rettamente formata, non permette di favorire l'attuazione di progetti contrari a tali principi. Ribadisco poi quanto già affermato nel Comunicato dei Vescovi dell'Emilia Romagna (in vista delle elezioni regionali del 2010): «Siamo consapevoli di avere proposto ai nostri fedeli non solo orientamenti doverosi per l'oggi, ma anche un costante cammino educativo, mediante cui l'assimilazione dei valori della Dottrina Sociale della Chiesa porta a giudizi e a scelte responsabili e coerenti, sottratte ai ricatti dei poteri ideologici e massmediatici o avvilite da interessi particolaristici. Vorremmo che crescesse, anche in forza di un rinnovato e quotidiano impegno educativo delle nostre Chiese, un laicato che proprio a causa della sua appartenenza ecclesiale, fosse dedito al bene comune della società». [cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, 28].
Pertanto clero ed organismi ecclesiali devono rimanere completamente fuori dal dibattito e dall'impegno politico pre-elettorale, mantenendosi assolutamente estranei a qualsiasi partito o schieramento politico. Per i sacerdoti questa esigenza è fondata sulla natura stessa del loro ministero (cfr. Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei Presbiteri 33, cpv.1°: EV 14/798). Se un fedele chiedesse al sacerdote come orientarsi nella situazione attuale, il sacerdote tenga presente le indicazioni già date nello stesso documento: «Ogni elettore è chiamato ad elaborare un giudizio prudenziale che per definizione non è mai dotato di certezza incontrovertibile.
Ma un giudizio è prudente quando è elaborato alla luce sia dei valori umani fondamentali che sono concretamente in questione sia delle circostanze rilevanti in cui siamo chiamati ad agire. Ciò premesso in linea generale, ogni elettore che voglia prendere una decisione prudente, deve discernere nell'attuale situazione quali valori umani fondamentali sono in questione, e giudicare quale parte politica - per i programmi che dichiara e per i candidati che indica per attuarli - dia maggiore affidamento per la loro difesa e promozione (…) Il Magistero della Chiesa è riferimento obbligante in questo aiuto al discernimento del fedele».
La nostra città e provincia, così come l'intera nazione, stanno attraversando un momento difficile, come ho già ricordato più volte nei mie messaggi, e in particolare in quello di Pasqua, per cui la consultazione elettorale sarà una occasione nella quale ogni fedele verrà invitato ad esercitare, mediante il voto, una parte attiva nella doverosa edificazione della comunità civile.
Benedico tutti di cuore
+ Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara-Comacchio
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Droga, una pessima legge avanza nel silenzio

di Alfredo Mantovano
La nuova Bussola Quotidiana, 29 aprile 2014



C’è una bella differenza fra essere menagrami, essere profeti di sventura ed essere realistici. Portare sfortuna o credere che qualcuno la porti ha molto a che fare con l’irrazionalità; diverso è l’atteggiamento di chi intuisce che da una scelta potrà venire fuori una sciagura, e mette in guardia per quel che può: Cassandra aveva visto giusto, non è stata creduta dai suoi concittadini, e certamente non era simpatica. Ma invece, prevedere che determinati comportamenti provocheranno dei danni e darne le ragioni, è qualcosa che non ha nulla di superstizioso né di profetico: è un atto di buon senso, che meriterebbe considerazione. È quello che hanno provato a fare, all’inizio della discussione alla Camera del decreto legge sulla droga davanti alle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali, gli esperti tossicologici e i responsabili delle comunità: la risposta di larghissima parte del Parlamento e del Governo è andata nella direzione opposta. E, per di più, allorché il testo è arrivato in Aula, il Governo ha stroncato ogni discussione e ieri sera ha posto la fiducia.

Il provvedimento che oggi sarà votato da Montecitorio è una pessima legge: fa tornare indietro di dieci anni e pone le condizioni perché riprendano a crescere i consumi di droga e i decessi per uso di stupefacenti, calati a partire dal 2007, e perché diminuiscano gli incentivi verso i recuperi, che erano aumentati proprio dal 2007, a seguito dell’inizio di operatività della Fini-Giovanardi. Dalla sua applicazione, soprattutto dopo i peggioramenti apportati alla Camera, lo spaccio di ogni tipo di droga trarrà un impulso inaspettato, grazie al ripristino della non punibilità per uso personale; con la Fini-Giovanardi un decreto del ministro della Salute stabiliva per ogni droga la quantità di sostanza al di sotto della quale vi è solo un illecito amministrativo e oltre la quale l’illecito è invece reato: un confine fisso, senza margine di dubbi. Grazie a un emendamento approvato dalle Commissioni, importare, comprare, detenere droga non costituiranno più reato – vi sarà solo sanzione amministrativa – se tali condotte saranno tenute “per farne uso personale”. A far presumere questa destinazione, oltre il limite di quantità, varranno le “modalità di presentazione” della droga, il “confezionamento frazionato” o “altre circostanze dell’azione”: da parametri oggettivi si passa così alla estrema genericità, che legittimerà le applicazioni più estese, come è già accaduto in passato nelle interpretazioni giurisprudenziali, allorché esisteva una norma simile. È un emendamento che potrebbe definirsi “salva-dama bianca”: in assenza del solo limite quantitativo oggettivo, nessuno può escludere che chi – come è accaduto il 13 marzo all’aeroporto di Fiumicino alla signora Federica Gagliardi – verrà sorpreso con chili di cocaina, importati e detenuti con discrezione, non frazionati né confezionati in dosi, si difenderà sostenendone la destinazione per proprio uso personale, e potrà essere dichiarato non punibile. Una benedizione per trafficanti e spacciatori!

È un testo sul quale sarà arduo intervenire al Senato: trattandosi di un decreto e dovendo essere convertito in legge entro 60 giorni dalla pubblicazione, va votato nella versione definitiva entro il 20 maggio; a Palazzo Madama restano pochi giorni utili, e non è facile immaginare modifiche che lo facciano tornare in tempo utile alla Camera. Quel che sconcerta non è che in questo precipizio ci si trovi, per l’ennesima volta, in virtù di una sentenza della Corte costituzionale (che pure si è basata su una questione di forma e non è entrata nel merito). Né meraviglia lo sforzo che, contro ogni evidenza scientifica e statistica, le forze politiche collocate a sinistra hanno posto in essere in Commissione per distruggere una delle poche riforme che hanno prodotto risultati positivi. Né sorprende l’assenza quasi totale di informazione: per gran parte dei media la quota di componenti di elezione diretta del prossimo Senato merita spazio di gran lunga superiore alla quotidiana tragedia della droga, e alla possibilità di limitarne i danni con norme adeguate.

Quel che meraviglia è che questo disastro stia per diventare legge senza l’attenzione e la discussione che merita, dentro e fuori il Palazzo. La Consulta ha disarticolato passaggi significativi della Fini-Giovanardi con la motivazione che queste disposizioni sono state introdotte nel 2006 in sede di conversione di un decreto-legge che trattava altra materia, e quindi non ne ha affrontato le questioni di sostanza; a sua volta, la depenalizzazione di fatto dello spaccio e la reintroduzione della erronea distinzione fra droghe “leggere” e “pesanti” avvengono senza problemi con un decreto d’urgenza, senza dibattito e senza approfondimento dei suoi singoli passaggi proprio perché il governo pone la fiducia! Quali sono le ragioni per le quali di qualcosa di così grave diventa impossibile perfino parlare? Quando era in corso la stesura della Fini-Giovanardi, certamente non mancò il confronto sui media, in convegni e in Parlamento: vi fu una lunga trattazione in Commissione al Senato: adesso si calpestano le conclusioni scientifiche e i dati oggettivi senza nemmeno spiegare perché.

Soprattutto meraviglia la sostanziale indifferenza verso un colpo di mano come quello senza che nessuno solleciti alla riflessione. La partita del voto di fiducia di oggi è importante in sé, per quanto fin qui riassunto. Ma è importante pure perché segna un punto a favore della rivincita dell’ideologia post-sessantottina, che nella Legislatura in corso punta al maggior numero di obiettivi. Guai a perdere di vista il legame esistenza fra: a) lo sforzo di scardinare la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna – il divorzio sprint, in discussione alla Camera, b) la sostanziale equiparazione al matrimonio, per come finora è stato disciplinato, dei diritti e dei doveri derivanti dall’unione civile, anche fra persone dello stesso sesso, in discussione al Senato, c) l’ammissibilità della fecondazione eterologa, reso possibile dalla Consulta, che consentirà a queste unioni di “avere figli”, d) le sanzioni penali del d.d.l. Scalfarotto, con cui dovrà fare i conti chi oserà obiettare qualcosa in proposito. Nel frattempo, canna libera, e non solo canna, per tutti e senza ostacoli…

No, non c’è bisogno di scomodare né la mala sorte né Cassandra. È solo il caso di svegliarsi, mettendo da parte un torpore che forse non è solo da cannabis.
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Quattro Papi per la riforma nella continuità

di Massimo Introvigne
La nuova Bussola Quotidiana, 28 aprile 2014



La grande «festa della fede» del 27 aprile 2014, come l’ha definita Papa Francesco al Regina Coeli, ha già offerto materia di riflessione anche ai sociologi, che certo continueranno ad analizzarla per qualche tempo. Non è solo il milione di pellegrini a Roma – anche se forse erano di più delle cifre ufficiali – a meritare un’analisi. Ci sono state altre riunioni religiose con folle più grandi: il record è proprio di san Giovanni Paolo II (1920-2005), che radunò cinque milioni di persone a Manila, nelle Filippine, per la Giornata Mondiale della Gioventù del 1995. Colpisce stavolta l’eco planetaria, i maxischermi in tante città, le televisioni di oltre cento Paesi, Internet, la stima di oltre un miliardo di persone che hanno seguito l’evento nel mondo. Manila 1995 fu una festa soprattutto per le Filippine, Roma 2014 è stata una festa mondiale. La partecipazione corale ha coinvolto ortodossi, protestanti, ebrei, perfino alcuni musulmani: e hanno colpito semmai per la loro «separatezza» i pochi irriducibili che si sono chiamati fuori come i Testimoni di Geova, per cui le canonizzazioni sono «riti pagani».

Da tempo la politica non è più in grado di organizzare adunate oceaniche: perfino in Cina non se ne fanno più, per evitare scomodi paragoni con il passato. Regge, come evento planetario, il calcio – molto meno altri sport –, dove però si celebrano, come i sociologi hanno scoperto da tempo, identità nazionali e locali in conflitto fra loro, mentre la Chiesa propone l’unità e l’universalità. Qualche commentatore – anche dotato di qualifiche accademiche – ha criticato la spettacolarità dell’evento di Piazza San Pietro, la televisione commerciale in 3D (che a me personalmente non è dispiaciuta), il tono inevitabilmente celebrativo che sembrerebbe in contrasto con lo stile di Papa Francesco. Ma forse tutto questo non è poi così lontano dal messaggio dei santi Giovanni XXIII (1881-1963) e Giovanni Paolo II, i quali – consapevoli che la moderna comunicazione di massa non può essere combattuta con successo – anziché contrastarla la abbracciarono, diventando rapidamente icone planetarie. Del resto, già il venerabile Pio XII (1876-1958) aveva raggiunto il mondo tramite la radio.
Per comprendere il senso dell’evento dobbiamo guardare però all’omelia di Papa Francesco, e anche al forte desiderio del Pontefice regnante di avere con sé nella concelebrazione Benedetto XVI, desiderio accolto di buon grado dal Papa emerito. I quattro Papi di cui tutti hanno parlato – due concelebranti e due canonizzati – hanno trasmesso infatti esattamente il messaggio che Papa Francesco aveva in mente: il messaggio, che è poi al centro del Magistero di Benedetto XVI, della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa. La Chiesa non avanza nella storia in modo tranquillo e lineare. È «semper reformanda»: procede attraverso riforme frequenti, spesso sconcertanti per chi le vive, e tuttavia – insegnava Papa Ratzinger – sempre da leggere non in contraddizione ma in continuità, talora difficile, con il Magistero precedente, perché il soggetto Chiesa che avanza nella storia è uno solo e non cambia.
È un soggetto dove coesistono trionfo e dolore. L’omelia di Papa Francesco è partita dalle «piaghe gloriose di Gesù risorto». Perché, si è chiesto il Papa, nel corpo di Gesù dopo la Resurrezione «le piaghe non scompaiono»? Perché, se da una parte sono «scandalo per la fede», sono anche «verifica della fede». Restano anche dopo la Resurrezione, «perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà. San Pietro, riprendendo Isaia, scrive ai cristiani: “Dalle sue piaghe siete stati guariti”».
Il Pontefice non ha citato il beato Antonio Rosmini (1797-1855), che a questo tema aveva dedicato profonde riflessioni, ma è apparso evidente il paragone fra le piaghe di Cristo e le ferite della Chiesa. Dire, come ha fatto Papa Francesco, che san Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II non si sono vergognati delle piaghe di Cristo e hanno avuto il coraggio di abbracciarle significa anche dire che hanno abbracciato la Chiesa: con la sua gloria imperitura, ma anche con le sue umane imperfezioni, con le ferite inferte dal mondo – in particolare dalle ideologie del XX secolo –, con la sua necessità costante di guarigione e di riforma. «Sono stati sacerdoti, e vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio che si manifesta in queste cinque piaghe; più forte era la vicinanza materna di Maria».
La speranza e la gioia dei due santi Pontefici sono «passate attraverso il crogiolo della spogliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino alla nausea per l’amarezza di quel calice. Queste sono la speranza e la gioia che i due santi Papi hanno ricevuto in dono dal Signore risorto e a loro volta hanno donato in abbondanza al Popolo di Dio, ricevendone eterna riconoscenza».
Quale riforma i due nuovi santi hanno proposto alla Chiesa? Qui Papa Francesco ha affrontato – e non poteva essere altrimenti, considerato il ruolo dei due Pontefici canonizzati – il tema, che a differenza di Benedetto XVI tratta di rado, del Concilio Vaticano II e della sua corretta interpretazione. «Nella convocazione del Concilio san Giovanni XXIII – ha detto Francesco – ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; per questo a me piace pensarlo come il Papa della docilità allo Spirito Santo». Ma che cosa voleva e doveva essere, davvero, il Concilio? Risponde Papa Francesco – sulla scia di san Giovanni XXIII che lo convocò, e di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che, dopo avervi partecipato, cercarono di riportarne l’interpretazione alle intenzioni originarie – che il Vaticano II voleva «ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa».
L’interpretazione dell’«aggiornamento» – un’espressione tipica di Papa Giovanni – coincide esattamente con quella proposta da Benedetto XVI: un «ripristino della fisionomia originaria», un «ressourcement», un ritorno alle sorgenti per l’evangelizzazione di un mondo postcristiano, secondo la formula coniata al Concilio dai padri della cosiddetta «alleanza renana» di cui Papa Ratzinger nel commiato dai parroci romani dopo le dimissioni, del 14 febbraio 2013, ha orgogliosamente rivendicato di avere fatto parte al Vaticano II, come giovane teologo ma non con un ruolo secondario. Certo, sappiamo – e lo affermava in quell’intervento anche Benedetto XVI – che la formula del «ritorno alle origini» fu deformata e manipolata nel postconcilio. Ma essa continua a descrivere correttamente la missione del Vaticano II e la sua riforma. Benedetto XVI – e per questo è significativa la sua presenza a concelebrare in Piazza San Pietro – non ha mai messo in discussione la riforma in nome della continuità, ma ha chiesto a tutti di accettare le riforme lealmente, certo interpretandole nel senso della continuità ma senza mai cercare di svuotarle della loro carica rinnovatrice e meno ancora di rifiutarle in nome del passato.
Lo snodo difficile tra riforme e continuità non è finito con il Vaticano II, e non si esaurisce con la sua interpretazione. Continua oggi, e continuerà domani. Per questo Papa Francesco ha voluto concludere la sua omelia ricordando che il nuovo santo «Giovanni Paolo II è stato il Papa della famiglia. Così lui stesso, una volta, disse che avrebbe voluto essere ricordato, come il Papa della famiglia». «Mi piace sottolinearlo – ha detto Francesco – mentre stiamo vivendo un cammino sinodale sulla famiglia e con le famiglie, un cammino che sicuramente dal Cielo lui accompagna e sostiene. Che entrambi questi nuovi santi Pastori del Popolo di Dio intercedano per la Chiesa affinché, durante questi due anni di cammino sinodale, sia docile allo Spirito Santo nel servizio pastorale alla famiglia. Che entrambi ci insegnino a non scandalizzarci delle piaghe di Cristo, ad addentrarci nel mistero della misericordia divina che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama».
San Giovanni Paolo II ha istituito la festa della Divina Misericordia, ne ha canonizzato l’apostola santa Faustina Kowalska (1905-1938), è morto alla vigilia della festa della Misericordia ed è stato canonizzato nella domenica della Misericordia. La festa globale del 27 aprile è stata la grande festa della misericordia. Non era il momento per chiedersi come la misericordia nei due sinodi che verranno – quello straordinario sulla famiglia e quello ordinario che lo seguirà – sarà declinata insieme alla fedeltà e alla verità. Né come la riforma, se ci sarà, sarà declinata insieme alla continuità. Ma la presenza insieme in Piazza San Pietro di quattro Papi riformatori – nell’elenco va certo incluso anche Benedetto XVI, perché l’invenzione del suo attuale ruolo di Papa emerito non è certo la meno sorprendente delle riforme recenti nella Chiesa – è stata voluta e cercata per dare appunto a tutti un senso visibile della riforma nella continuità.
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Cannabis, altro che droga leggera

di Alfredo Mantovano
La nuova Bussola Quotidiana, 5 aprile 2014

La Corte Costituzionale, per un vizio di forma, ha cassato la Legge Fini-Giovanardi in materia di droga. Il governo è stato quindi costretto a varare un decreto-legge – il n. 36 del 20 marzo – per fare fronte alle incertezze interpretative conseguenti a tale sentenza. Ma il nuovo decreto, invece di seguire le linee della legge precedente, distingue di nuovo fra droghe leggere e droghe pesanti. E spiana la via ai legalizzatori di quelle "leggere". Meglio, a questo punto, ripassare la storia delle leggi anti-droga dal 1990 al 2006. E saperne di più su droghe che non sono affatto leggere.

BREVE STORIA DELLE LEGGI SULLA DROGA
Dal 1990 al 2006, il legislatore ha sempre cercato di prevenire e curare il problema della droga. Prima con la legge Vassalli-Russo Jervolino (1990), poi con quella Fini-Giovanardi (2006). Ma la sentenza della Corte Costituzionale del 2014 apre un vuoto che non può essere colmato con un decreto molto discutibile.

AUDIZIONE SERPELLONI, TUTTA LA VERITA' SULLA CANNABIS
Il capo del Dipartimento delle politiche antidroga della Presidenza del Consiglio, professor Giovanni Serpelloni, ha svolto la sua audizione il 2 aprile a margine della discussione sul decreto-legge droga. Smontando tutti i luoghi comuni.

Breve storia della legge anti-droga

La legge Vassalli/Russo Jervolino. Riassunto delle puntate precedenti: nel 1990 viene approvata la legge n. 162, chiamata Vassalli-Russo Jervolino, dai nomi dei ministri proponenti dell’epoca. Quelle norme, ribaltando la logica precedente, guardavano con sfavore non soltanto il traffico e lo spaccio, ma anche l'assunzione di stupefacenti, che veniva sanzionata sul piano amministrativo. Anche la detenzione di droga incontrava solo la sanzione amministrativa quando non superava i limiti della dose media giornaliera, che erano fissati da un decreto ministeriale: oltre quei limiti interveniva, con gradualità, la sanzione penale. Il consumatore di droga non era più ritenuto un semplice ammalato, ma un soggetto che, pur avendo bisogno di cure, compiva una scelta che lo Stato non apprezzava; lo Stato tuttavia tendeva la mano a colui che sbagliava, comprendendo che dietro quell'errore vi è una serie di tragedie personali e di problemi, e permetteva all'assuntore di droga di andare esente dalla sanzione amministrativa o penale, a condizione di abbandonare la droga e di seguire un percorso di recupero. Non è vero che quella legge ha mandato più drogati in carcere: la maggior parte dei tossicodipendenti che nel suo vigore sono finiti in carcere ci sono andati (come accade adesso) perché avevano compiuto rapine, furti o estorsioni, motivati dalla necessità di procurare per sé la droga, o perché spacciavano o detenevano quantitativi significativi di stupefacenti; e anzi, quella legislazione aveva introdotto vie privilegiate di allontanamento dal circuito penitenziario se il tossicodipendente decideva di sottoporsi al recupero.

Il referendum radicale del 1993. Gli effetti positivi che la Vassalli-Russo Jervolino cominciava a produrre – diminuzione dei decessi di droga, incremento degli ingressi nelle comunità, sequestro di quantitativi sempre più consistenti di stupefacenti – sono stati frenati dal referendum promosso e vinto dai Radicali nel 1993: dopo quel referendum è rimasta illecita soltanto l’attività di spaccio che sia stata accertata in quanto tale. A partire dal referendum, e fino al 2006, anche la detenzione di quantitativi importanti di stupefacenti, che non fosse accompagnata da gesti univoci di cessione a terzi, era penalmente irrilevante: in questi termini si era orientata la giurisprudenza, che era giunta a ritenere non punibile la detenzione di decine di grammi di eroina, e perfino la cessione finalizzata al "consumo di gruppo". Il quadro normativo era diventato al tempo stesso lassista e inutilmente rigorista. Lassista nel momento del contatto con la droga da parte del potenziale consumatore: senza la prova della predisposizione per lo spaccio, non vi era alcun limite di illiceità per la detenzione. Inutilmente rigorista nel momento del recupero: in più casi il tossicodipendente che completava positivamente il suo percorso era costretto a tornare in carcere, pur in presenza di reati non gravi e pur avendo cancellato l’impulso a drogarsi che lo aveva portato a commettere reati, vanificando così gli sforzi per il recupero.

La legge del 2006. La riforma approvata all’inizio del 2006, conosciuta come Fini-Giovanardi, puntava a superare quest’insieme di problemi. Era introdotto un nuovo sistema di catalogazione delle tabelle delle sostanze stupefacenti, e venivano snelliti i meccanismi di completamento e di aggiornamento delle tabelle medesime. Le tabelle erano ridotte a due: nella prima erano elencati tutti gli stupefacenti, senza distinzione fra droghe “leggere” e “pesanti”; nella seconda, a sua volta suddivisa in cinque sezioni, erano inclusi i medicinali contenenti sostanze droganti. Il nuovo sistema sanzionatorio – amministrativo e penale –, puntava a coniugare tre termini, ciascuno dei quali con legato agli altri due, prevenzione, repressione e recupero, partendo dal presupposto che drogarsi non è un innocuo esercizio di libertà, ma è un atto di rifiuto dei più elementari doveri del singolo nei confronti delle diverse comunità nelle quali concretamente vive. Era reintrodotta la punizione della detenzione di droga e fissato il confine fra la detenzione che rappresenta illecito amministrativo e la detenzione che costituisce illecito penale; il confine non è più la modica quantità, e cioè un dato soggettivo riferito alla persona del tossicodipendente, e quindi arbitrario, né la dose media giornaliera, bensì una tabella quantitativa per sostanza, del tutto oggettiva: oltre il limite che la tabella indica per ogni sostanza stupefacente vi è una presunzione di pericolosità anche nella detenzione. Se la droga detenuta oltrepassa quel limite, operano le sanzioni penali; se è al di sotto di quel limite operano le sanzioni amministrative (sospensione della patente di guida, del porto d’armi, del passaporto, del permesso di soggiorno per motivi turistici, e fermo amministrativo del ciclomotore in uso).

Con la nuova legge le sanzioni penali, oltre il limite oggettivo di cui si è detto, seguono criteri di gradualità. Per chi commette un fatto di lieve entità viene introdotta una misura del tutto nuova qualora il soggetto non intenda affrontare un percorso di recupero, e abbia già fruito della sospensione della pena: invece di andare in carcere, se lo richiede, egli può svolgere un lavoro di pubblica utilità per l’intera durata della pena detentiva irrogata. Quindi, è vero che nella fase di avvicinamento alla sostanza vi è un richiamo a maggiore responsabilità: ma – a differenza di ciò che si continua a leggere sui giornali – nell’intera legge non si trova una norma che spedisce in carcere chi fuma uno spinello. Confermando disposizioni esistenti, che vengono rese più adeguate alla gravità dei delitti commessi, il recupero viene favorito già dal momento in cui viene disposta la custodia cautelare in carcere: questa può essere evitata andando agli arresti domiciliari e iniziando, a determinate condizioni, un programma terapeutico. Per avere maggiori chance di affrontare quest’ultimo è ampliata la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena detentiva definitiva: mentre prima il limite di pena che consentiva la sospensione era di 4 anni di reclusione, il nuovo limite viene elevato a 6 anni di reclusione; così una fascia più estesa di tossicodipendenti si è potuta inserire in percorsi di riabilitazione.

La sentenza della Corte costituzionale e il nuovo decreto-legge in discussione. La Consulta è intervenuta con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2014 e ha dichiarato illegittime la norma della Fini-Giovanardi che equipara droghe “pesanti” e droghe “leggere” e le disposizioni a essa collegate. La Corte ha ravvisato il contrasto con la Costituzione non in ragioni di merito, bensì in un vizio formale: poiché le riforma del 2006 è stata inserita nell’ordinamento con la conversione in legge di un decreto del Governo riguardante altra materia, i giudici costituzionali hanno constatato eterogeneità fra la versione originaria del decreto legge e quanto introdotto durante la conversione. Il governo è stato quindi costretto a varare un decreto-legge – il n. 36 del 20 marzo – per fare fronte alle incertezze interpretative conseguenti a tale sentenza. E se la Corte ha cassato una parte della legge del 2006 per dis-omogeneità di materia in sede di conversione, logica avrebbe voluto il ripristino della normativa in vigore al momento della pubblicazione della sua decisione, e quindi un decreto legge che riportasse esattamente alle disposizioni del 2006: farlo con un atto legislativo autonomo avrebbe sanato il vizio formale individuato dalla Corte.

Larga parte del decreto-legge segue in modo analitico tale impostazione. Con due eccezioni e una possibile sorpresa: la prima è la reintroduzione della distinzione fra droghe “leggere” e “pesanti”; rispetto all’originaria unica tabella delle sostanze stupefacenti il decreto-legge torna a quattro tabelle (più una tabella “dei medicinali”), e considera in modo distinto la cannabis e i suoi derivati, che vanno a finire nella seconda tabella. La seconda eccezione riguarda il trattamento sanzionatorio: per effetto combinato del nuovo decreto e della sentenza della Consulta rivive il regime delle sanzioni della Vassalli-Russo Jervolino, e quindi le pene per la detenzione in quantità significativa, lo spaccio e il traffico della cannabis e dei suoi derivati sono notevolmente ridotte. La possibile sorpresa è che, con gli attuali numeri e sensibilità del Parlamento, nulla esclude il colpo di mano – come si era provato a gennaio, al momento della discussione del decreto “svuota carceri” – di chi, non accontentandosi della riduzione di pena, punta alla depenalizzazione delle droghe qualificate “leggere”. Tre mesi fa il tentativo non andò a buon fine perché la materia venne ritenuta estranea al decreto allora in discussione: oggi questa preclusione formale non esiste; i media hanno anzi informato di una discussione nel Consiglio dei ministri, al momento del varo del decreto-legge fra il ministro della Salute Lorenzin, che puntava a un ripristino integrale della legge del 2006, e il ministro della Giustizia Orlando, che si è invece opposto: il che tranquillizza ancora meno su quanto potrà accadere in Parlamento, coi numeri attuali e con l’assenza di una posizione univoca del Governo.

La discussione del provvedimento è appena iniziata davanti alle Commissioni riunite, Giustizia e Affari sociali, della Camera, e finora sono state svolte le audizioni dei soggetti a vario titolo interessati alla materia. Fra le audizioni svolte merita menzione quella del prof. Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento delle politiche antidroga della Presidenza del Consiglio: si è tenuta il 2 aprile ed è stata accompagnata da una relazione, che è agli atti e quindi a disposizione di tutti. Andrebbe letta dalla prima all’ultima parola perché affronta e supera, dati scientifici alla mano, una serie di luoghi comuni a proposito della cannabis e dei suoi derivati. La riassumiamo nel pezzo sotto, augurandoci i parlamentari ne traggano lumi prima di votare il decreto.

Audizione Serpelloni, tutta la verità sulla cannabis

Come è stato raccontato nel pezzo sopra, il 2 aprile il capo del Dipartimento delle politiche antidroga della Presidenza del Consiglio prof. Giovanni Serpelloni ha svolto la sua audizione, a margine della discussione sul decreto-legge droga. Provo a estrarre le parti più significative della relazione che ha depositato nella circostanza:

Cannabis droga leggera? Il principio attivo della cannabis è, com’è noto, il delta 9 tetraidrocannabinolo (THC). Fino alla fine degli anni 1990 il THC che si riscontrava nella cannabis e nei derivati, sequestrati dalle forze di polizia, non oltrepassava il tasso prodotto spontaneamente dalla pianta naturale, il cui limite massimo era del 2.5%. La percentuale di THC rilevata nel quadriennio 2010-2013 è giunto a una media del 16.8% quanto al materiale vegetale (inflorescenze e foglie) e del 26.6% quanto ai derivati (resine e oli), con punte massime del 60.6% (25 volte il massimo della percentuale di 15 anni fa)! Ciò è stato possibile grazie alla coltivazione intensiva e a manipolazioni fito-produttive, che hanno concentrato il principio attivo e alterato le caratteristiche della pianta. Come si fa a dire che un derivato della cannabis col 25% di THC è droga “leggera”? Come si fa a parificarla a una “canna” col 2% di THC? Ogni persona in buona salute è in grado di reggere un boccale di birra di 0.4 lt. col 5% di gradazione alcolica, ma nessuna persona in buona salute regge 0.4 lt. di grappa al 42% di gradazione alcolica: la quantità di liquido è eguale, la qualità dell’alcool è differente. Se ciò è evidente per l’alcool, perché non dovrebbe esserlo per la cannabis? Come escludere il profilo qualitativo dalla qualifica di “leggerezza” e dalle conseguenze sanzionatorie da essa derivanti?

Cannabis droga innocua? Nel 2011 (ultimi dati disponibili) i ricoveri ospedalieri causati da intossicazione da droga hanno fatto registrare un 16% dovuto alla cannabis, a fronte di un 60% da oppiacei, in prevalenza eroina; nello stesso anno però i minori ricoverati perché intossicati dalla cannabis sono stati il 44,2%. Il che vuol dire che, con l’attuale percentuale media di THC, la cannabis fa male al punto da mandare in ospedale, e fa più male ai più giovani, che sono coloro che ne fanno maggiore uso; 290.000 ragazzi fra i 15 e i 17 anni hanno assunto almeno una volta sostanza stupefacente negli ultimi 12 mesi, e per il 71.2% di essi si è trattato di cannabis. Il dato italiano è in linea col trend europeo, che, rispetto al totale di ricoveri per intossicazione da droga, ha fatto registrare un 22% di ricoveri per intossicazione da cannabis. Se la cannabis fa così male, soprattutto ai minori, è il caso di facilitarne la diffusione diminuendo le sanzioni previste per chi la spaccia e la traffica?

Cannabis droga socializzante? Da anni la letteratura scientifica ha dimostrato che l’assunzione di cannabis provoca danni irreversibili al cervello; quello che, ricordando e aggiornando tali ricerche, la relazione del prof. Serpelloni aggiunge è il resoconto di uno studio recente, condotto nel corso degli anni sul quoziente di intelligenza di 1037 soggetti, nati fra il 1972 e il 1974, assuntori di cannabis fino al compimento dei 38 anni, suddivisi fra coloro che hanno iniziato prima del compimento della maggiore età e coloro che hanno iniziato da maggiorenni; ciascuna di queste categorie, a sua volta, è stata suddivisa fra coloro che ne hanno fatto un uso frequente e coloro che ne hanno fatto un uso occasionale. I risultati sono sorprendenti: per chi ha assunto frequentemente cannabis da minorenne, a fronte di un QI iniziale pari a 97, il QI a 38 anni è sceso a 88; per l’adolescente che l’ha assunta occasionalmente il QI iniziale era di 102, il QI a 38 anni di 97. Per chi iniziato ad assumere con frequenza cannabis dopo i 18 anni, il QI iniziale era di 98 e il QI a 38 anni di 95; per il maggiorenne assuntore occasionale QI iniziale di 104, QI a 38 anni di 105. C’è bisogno di commento? (ovviamente l’ultimo dato, che si riporta per completezza, non deve incentivare l’uso infrequente di cannabis superati i 18 anni! rende ancora più evidente la dannosità dell’assunzione anche occasionale da parte del minorenne, che è oggi il problema più serio).

Fini-Giovanardi inutile? I dati a disposizione dimostrano il contrario e, provenendo da differenti fonti scientifiche (fra le quali, il CNR e l’Istituto Mario Negri), concordano nelle conclusioni. Prendendo come riferimento la popolazione compresa fra i 15 e i 64 anni per gli anni 2001-2012, si riscontra un incremento di consumo di stupefacenti di vario tipo che raggiunge il picco più elevato nel 2008; poi esso cala in modo sensibile: addirittura, per cannabis e derivati dal 15% a poco più del 2% della popolazione. In controtendenza è il dato del consumo di cannabis da parte delle persone di età fra i 15 e i 19 anni: in calo dal 2008 al 2011, appare in sensibile risalita negli ultimi due anni; come mai? La risposta del Dipartimento antidroga guidato è in un grafico che pone a confronto l’incremento dell’uso di cannabis dal 2011 al 2014 – dal 17.9% al 26.7% dei giovani fra 15 e 19 anni, + 8.8 % in appena tre anni – e l’incremento della promozione on line di tali sostanze, dall’e-commerce ai siti pro legalizzazione, ai social network pro cannabis: i tracciati sono paralleli. Quando alla propaganda, che purtroppo funziona, si affiancherà un trattamento sanzionatorio più benevolo, quale è quello del decreto legge, o addirittura la legalizzazione, l’uso di cannabis salirà ulteriormente, e in modo ancor più significativo.

Fini-Giovanardi dannosa perché carcerizzante? Anche in tal caso i dati a disposizione dimostrano il contrario. La legge è del 2006: il Dap-dipartimento dell’amministrazione penitenziaria informa che gli ingressi in carcere per violazione della legge sulla droga sono stati 26.985 nel 2007, 28.798 nel 2008, e poi sono progressivamente calati, fino a 21.285 nel 2012. Nella medesima fascia temporale i tossicodipendenti provenienti dalla detenzione e affidati al servizio sociale sono passati da 514 del 2007 a 1.578 del 2012, con un trend crescente. Gli ingressi annuali in carcere dei soggetti con problemi di droga sono scesi da 24.371 a 18.285. Peccato che sulle principali testate giornalistiche continuiamo a leggere che la Fini-Giovanardi va abolita perché ha riempito il carcere di drogati, mentre la relazione Serpelloni non è neanche citata. Per completare: i decessi per droga sono scesi da poco meno di 600 nel 2007 a 390 del 2012 (ma il 2012 ha fatto registrare un leggero incremento rispetto al picco negativo del 2011: 362). Dunque, la legge del 2006 è riuscita a far diminuire il consumo totale di droghe e il numero di tossicodipendenti in carcere, con parallelo incremento dei recuperi: è proprio il caso di stravolgerla?-------------------------------------------------------
Omofobia, si riparte. Prove tecniche di dittatura

di Massimo Introvigne
La nuova Bussola Quotidiana, 7 aprile 2014



Ci risiamo. Mercoledì riparte in Senato l'esame del disegno di legge Scalfarotto sull'omofobia. I nostri lettori sanno a memoria di che si tratta, ma magari qualcuno condividerà questo articolo con amici meno informati. Ecco dunque un riassunto. Capita che persone omosessuali - come tante altre persone - siano picchiate, minacciate o insultate. È giusto punire i responsabili. Sono già puniti dalle leggi in vigore. Si dice che è necessaria un'aggravante, per scoraggiare i teppisti che vanno in cerca di omosessuali cui «dare una lezione». Non si sa quanti siano questi teppisti, ma quello che si sa con certezza è che l'aggravante c'è già. Se una persona omosessuale è picchiata in un ristorante non perché non ha pagato il conto ma in odio alla sua condizione di omosessuale i nostri tribunali applicano l'aggravante dei «motivi abietti». Non è un'aggravante riferita specificamente agli omosessuali. Colpisce chi picchia un cattolico non perché non gli ha saldato un debito ma perché è cattolico, o un nigeriano non perché gli ha dato uno spintone ma in quanto nigeriano, conformemente alle convenzioni internazionali sui cosiddetti «crimini di odio» che anche l'Italia ha sottoscritto.



Dovrebbe essere, dunque, tutto chiaro. Picchiare, insultare, minacciare una persona omosessuale - come chiunque altro - è un crimine che va punito. Ma è già punito, e anche l'aggravante c'è già. Perché, allora, si chiede una legge contro l'omofobia? Che cosa prevede che nelle leggi attuali non ci sia già? Introduce un delitto di opinione: chiunque manifesta idee che «istigano alla discriminazione» nei confronti di omosessuali e transessuali è punito con la reclusione fino a un anno e mezzo. Se partecipa ad associazioni che promuovono queste idee, la pena sale fino a quattro anni, mentre chi addirittura fondasse o dirigesse tali associazioni rischia di rimanere in prigione sei anni. È vero che all'ultimo momento è stato introdotto un emendamento che dovrebbe proteggere chi esprime queste idee all'interno di chiese e sedi associative - non fuori -, ma l'eccezione è così vaga che l'interpretazione è lasciata al buon cuore dei giudici,  e comunque in Senato già si propone di cancellarla.


Manifestare idee che «istigano alla discriminazione» è un tipico reato di opinione, una museruola messa alla libertà di espressione. Per esempio, sostenere che il «matrimonio» fra persone dello stesso sesso non va riconosciuto, o che i bambini non vanno consegnati per l'adozione a coppie omosessuali, è certamente una «discriminazione» nel senso letterale del termine, e di fatto è stata considerata tale dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Ecco dunque spiegato a che cosa serve la legge Scalfarotto: a imbavagliare, con lo spauracchio di severissime pene detentive, chi osasse opporsi al «matrimonio» o alle adozioni omosessuali, o peggio continuare a sostenere che il comportamento omosessuale, come insegna il «Catechismo della Chiesa Cattolica» è «intrinsecamente disordinato» e «in nessun caso può essere approvato».

Timori eccessivi del nostro giornale, dei comitati "Sì alla famiglia" o delle Sentinelle in piedi che - incuranti delle provocazioni e degli insulti - continuano a manifestare in tutta Italia? Ma no, che le cose stiano così non lo dice «La Nuova Bussola Quotidiana» ma lo stesso Scalfarotto, il quale giorni fa lo ha ripetuto nel programma televisivo «Le invasioni barbariche». Dove ha spiegato come la legge sull'omofobia sia la prima tappa in un itinerario che porterà  al «matrimonio» omosessuale - che all'inizio si chiamerà «unione civile» per lucrare l'appoggio di qualche cattolico e magari anche di qualche sacerdote - e poi, ma solo poi, alle adozioni dei bambini da parte delle coppie dello stesso sesso.

I rischi, però, sono ancora peggiori. Un modello sociologico - di cui confesso di essere all'origine, e che oggi è citato anche in documenti di organizzazioni internazionali - prevede che le minoranze sgradite a certi «poteri forti» siano vittima di una «spirale dell'intolleranza» che prevede tre tappe. La prima è appunto l'intolleranza, che è un fatto culturale: chi sostiene certe posizioni è offeso e messo in ridicolo dai media, e presentato come un ostacolo da rimuovere alla pubblica felicità. Segue la discriminazione, che è un fatto giuridico: contro chi osa affermare certe idee scattano le leggi e la prigione. Il terzo stadio è la cultura dell'odio, che va anche oltre le leggi. Senza bisogno di attendere i giudici - qualche volta, anzi, violando la legge - i privati si fanno «giustizia» da soli, escludendo dai posti di lavoro e qualche volta malmenando i sostenitori di idee considerate «tossiche» e pericolose.

In Italia, almeno per questa settimana, siamo ancora nella prima fase, l'intolleranza. Chi si oppone al «matrimonio» e alle adozioni omosessuali, o sostiene che gli atti omosessuali sono «intrinsecamente disordinati», è offeso e ridicolizzato sui media, escluso dai dibattiti televisivi, minacciato dagli opuscoli dell'UNAR, l'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. Ma, per ora, non va in prigione.

Con l'approvazione della legge Scalfarotto passeremo anche noi alla seconda fase, la discriminazione. Chi manifesta idee contrarie all'ideologia di genere finirà in prigione. Gli esempi dei Paesi dove le leggi sull'omofobia ci sono già ci mostrano che basta molto poco. In Francia qualcuno è stato arrestato solo perché indossava una maglietta della Manif pour Tous, la manifestazione contro il «matrimonio» omosessuale. In Spagna il cardinale Sebastián è stato iscritto nel registro degli indagati per avere affermato che l'omosessualità è una forma «deficiente» - nel senso, e lo ha spiegato, che le «manca» (in latino «deficit») qualcosa - di esprimere la propria sessualità.

Le leggi creano clima e costume. Datele qualche mese, e la legge sull'omofobia genererà inesorabilmente la terza fase, quella della cultura dell'odio. All'estero è andata così. Perché in Italia dovrebbe essere diverso? Gli esempi arrivano al ritmo di uno al giorno. Eccone due, dell'ultima settimana.

Esempio numero uno: Stati Uniti. Brendan Eich è considerato uno dei migliori e più geniali manager del mondo di Internet. Grazie a lui il browser Mozilla ha sfidato con successo il colosso Internet Explorer. La sua azienda  lo nomina amministratore delegato. Ma ha fatto i conti senza la cultura dell'odio creata dalle leggi sull'omofobia. Un sito di attivisti gay scova il nome del manager tra decine di migliaia di americani che hanno sostenuto con una donazione la campagna per il referendum che, in California, ha introdotto nella Costituzione dello Stato la nozione che il matrimonio è solo tra un uomo e una donna. La vittoria degli elettori californiani nelle urne è stata poi cancellata dai giudici della Corte Suprema. Ma non è questo che interessa ai gay. Per avere donato mille dollari ai promotori del referendum, Eich è stato attaccato come omofobo impenitente. Non gli è bastato dichiararsi contrario alla discriminazione degli omosessuali. Si voleva che chiedesse scusa e inneggiasse al «matrimonio» fra persone dello stesso sesso. Dimostrando che Mozilla non fa sempre rima con Barilla, ha tenuto la schiena dritta e non si è piegato. È stato buttato fuori, costretto a dimettersi in quarantotto ore. L'azienda ha emesso un comunicato da cui emerge che chi è contrario al «matrimonio» omosessuale in futuro non sarà più assunto non solo come dirigente, ma neppure come addetto alle pulizie dei gabinetti. Gli altri giganti della Silicon Valley - Google, Microsoft, Apple - hanno fatto sapere che loro queste politiche le applicano già.

Chi fa parte di una minoranza discriminata: il manager geniale che si ritrova senza lavoro o gli attivisti gay che lo hanno - come ha scritto un quotidiano americano - «scotennato»? Anzi, la domanda è mal posta. Quel referendum era stato votato dalla maggioranza dei californiani, referendum analoghi in altri Stati dalla maggioranza degli americani. Ormai non si discriminano neanche più le minoranze. Si discriminano le maggioranze, in nome della superiorità morale di minoranze dichiarate «illuminate» da una piccola élite di padroni del vapore.

Esempio numero due: Germania. Una regione, il Baden-Württemberg, introduce nelle scuole corsi obbligatori di educazione sessuale che esaltano l'omosessualità. Molti genitori cristiani non ci stanno e scendono in piazza. Del tutto pacificamente, talora anzi silenziosamente come le Sentinelle in piedi. Attivisti LGBT li aggrediscono, sputano loro addosso, li accecano con gli spray al pepe e, se tutto questo non basta a fermare le dimostrazioni, li picchiano fino a mandarli in ospedale. La reazione della polizia è piuttosto blanda, gli arresti e le condanne dei violenti praticamente inesistenti. Tutto documentato, anche con video, dall'autorevole Osservatorio dell'Intolleranza contro i Cristiani di Vienna (sito Internet: www.intoleranceagainstchristians.eu).

Sono i frutti inevitabili delle leggi sull'omofobia. Se chi si oppone al «matrimonio» omosessuale è un criminale che deve andare in prigione, come può un'azienda dargli lavoro? E come si può tollerare che dei criminali commettano il loro delitto - «istigare alla discriminazione», come dice la legge Scalfarotto - addirittura in piazza?  Come stupirsi se «buoni» cittadini li riempiono di sputi e di botte, e la polizia e i giudici guardano dall'altra parte? Dopo tutto, se la mafia manifestasse in piazza a favore del racket e i cittadini picchiassero i mafiosi, la polizia da che parte starebbe?  Con la legge Scalfarotto, la pena per chi promuove e dirige associazioni che «istigano alla discriminazione» - fino a sei anni di galera - è più alta di quella concretamente inflitta a molti mafiosi. Se la legge sarà approvata, sarà un messaggio chiaro per tutti - media, giudici, poliziotti - su quanto pericolosi lo Stato ritenga questi criminali che osano opporsi al «matrimonio» e alle adozioni omosessuali, o considerano l'omosessualità non una festa o qualcosa da promuovere ma un disordine e un disagio.

Qualche giorno fa l'Arcivescovo di Torino ha pubblicato una nota sulla «dittatura del 'genere'» che si sta instaurando anche in Italia. Repubblica ha trovato, senza troppe difficoltà, due preti - uno, per la verità, ex prete - cui far dire in un'intervista che sono esagerate le preoccupazioni dell'Arcivescovo. Esagerate? Lo chiedano a Mister Eich o ai genitori del Baden-Württemberg. Forse è l'ultima settimana utile. Se non vogliamo perdere il lavoro, farci coprire di sputi e picchiare in piazza - come alternativa a finire «semplicemente» in prigione per qualche anno - fermiamo la legge Scalfarotto, e fermiamola adesso.
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La «buona politica» per la famiglia

di Massimo Introvigne
La nuova Bussola Quotidiana, 22 marzo 2014

Pubblichiamo ampi stralci della relazione di apertura di Massimo Introvigne al convegno — tenutosi il 22 marzo a Roma — «La buona politica. I cattolici, la famiglia e il futuro dell'Italia» promosso da Alleanza Cattolica.

Si chiamava Eduardo De Falco (1975-2014), ma per gli amici era «Speedy Pizza». Aveva ideato un sistema per sfornare pizzette molto rapidamente nella sua panetteria di Casalnuovo di Napoli (Napoli). Si è suicidato, inalando i gas di scarico della sua auto, il 19 febbraio 2014. Lascia una moglie e tre figli: una ragazza di quattordici anni e due fratelli gemelli di cinque. Già prostrato dalle tasse, rischiava la chiusura del negozio. L’Ispettorato del Lavoro aveva trovato la moglie – che sembra andasse nella panetteria solo occasionalmente – intenta ad aiutarlo con le pizzette. Poiché la donna non aveva un contratto di lavoro, aveva comminato a «Speedy Pizza» una multa di duemila euro, e ora minacciava di chiudere l’esercizio. Uno squilibrato vittima della depressione? Sembra di no. «Conoscevo Eduardo De Falco – dice il vicepresidente di Confcommercio Napoli, Gaetano Coppola, anche lui residente a Casalnuovo – era un gran lavoratore e faceva un prodotto ottimo. Era un uomo molto equilibrato. Se ha deciso di togliersi la vita è perché non reggeva più alle difficoltà economiche e la multa è stato l’ultimo colpo. La sua morte si aggiunge a quella di altre decine di commercianti che si sono suicidati per l’impossibilità di dialogare con il fisco, con gli enti locali, e con gli uffici che recapitano multe e cartelle esattoriali che richiederebbero almeno una rateizzazione, che spesso è impossibile chiedere».

In Italia, un Paese dove tradizionalmente per fortuna i suicidi sono meno numerosi che altrovec’è un suicidio economico ogni due giorni e mezzo. L’aumento nel 2013 è del 75% sul 2012. Il 45,6% di questi suicidi è opera di imprenditori. Inoltre, nel 2013 rispetto al 2012 sono aumentati del 90% i tentati suicidi per motivi economici. Se però non si tratta di persone squilibrate e depresse – era questo, secondo il vicepresidente della Confcommercio di Napoli, il caso del povero «Speedy Pizza» –, c’è qualcosa che dev’essere spiegato. La povertà di per sé non spinge necessariamente a suicidarsi, anzi i Paesi del Terzo Mondo hanno tassi di suicidio molto più bassi dell’Europa.

Dal 15 novembre 2013 al 9 marzo 2014 molti hanno potuto ammirare a Milano, al Museo del Novecento, la mostra dedicata alla genesi de «Il Quarto Stato» (1901) di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907), un quadro che è diventato un’icona della protesta sociale italiana. Raffigura contadini e operai che avanzano, in lotta per i loro diritti. Quel Quarto Stato, nella sostanza il mondo del lavoro dipendente, grazie ai cattolici ben più che ai socialisti ha raggiunto nel XX e XXI secolo una condizione che non è certo ottimale, ma che regge meglio alla crisi rispetto a due altri gruppi. Si tratta di quelli che il sociologo Aldo Bonomi chiama il popolo della «vita nuda» e il popolo della «nuda vita».

Il popolo della vita nuda è quello che rovista nei cassonetti, che conosce la povertà del corpo. Gli manca la casa, e qualche volta gli manca anche da mangiare. Oggi non è costituito solo da immigrati e barboni, ma anche da ex-piccolo borghesi rovinati dalla crisi e dalle tasse. Il popolo della nuda vita è invece quello che altri sociologi prima di Bonomi avevano chiamato il Quinto Stato: giovani dotati di conoscenze e know-how, figli della società dell’informatica e delle nuove professioni, ma ora disoccupati o – se sono lavoratori autonomi – proletarizzati inflessibilmente dalla pressione fiscale e contributiva, a tutto vantaggio di pochi super-ricchi.

A poco a poco il Quinto Stato, la nuda vita, va a confluire nella vita nuda: il futuro è il cassonetto e, per chi rifiuta il cassonetto, il suicidio. In Italia mille imprese falliscono ogni giorno, centomila posti di lavoro si perdono ogni mese. Confcommercio stima quattro milioni di poveri, altri pensano che siano il doppio – e parliamo di cittadini italiani, stranieri esclusi. Secondo l’ISTAT il tasso di disoccupazione italiano agli inizi del 2014 è del 12,9%, aumentato di 1,4 punti rispetto al 2012, ma il tasso di disoccupazione giovanile, che è del 42,4%, è uno dei più alti del mondo.

Quali sono le cause? Gli economisti, tra cui Maurizio Milano che ha spiegato recentemente questi concetti su «La nuova Bussola quotidiana», parlano delle tre D: delocalizzazione / deficit / debito. La delocalizzazione sposta i posti di lavoro dove il lavoro costa meno. All’inizio funziona: nelle società occidentali si lavora di meno, e si consumano di più prodotti che costano meno. Ma, mentre la Cina e altri Paesi «nuovi ricchi» producono senza consumare – il che non è senza problemi, per loro e per noi –, Nord America ed Europa consumano senza produrre, e creano deficit. A partire dagli anni 1970 l’aumento dei consumi è finanziato dal deficit degli Stati occidentali, il quale diventa debito che incombe talora sulle famiglie e talora sugli Stati. In Italia il rapporto debito/PIL è salito a fine 2013 al 133%, e il suo «servizio» costa agli italiani 85 miliardi di euro all’anno – con un trend che viaggia verso i cento miliardi –, finanziati con un fisco da record mondiale e con una vessazione del contribuente che assume i caratteri di vera e propria persecuzione fiscale.

Al di là delle tre D – delocalizzazione, deficit e debito – emerge la quarta D, che è insieme alle loro radici e all’origine profonda della crisi: la demografia. L’economista cattolico Ettore Gotti Tedeschi è stato talora criticato per l’eccessiva insistenza sulle questioni demografiche: ma, anche da un punto di vista sociologico, la sua lettura della crisi appare convincente. Così la riassume: «Senza aumento delle nascite il Pil – di fatto e senza retorica accademica – nel mondo cresce solo se si fanno crescere i consumi individuali. Per creare una cultura di consumismo si devono installare nella cervice umana concetti di soddisfazione materialistica al posto di quelli di soddisfazione intellettuale e spirituale. […] Si comincia a “mangiar” risparmio per arrivare progressivamente alla magia dell’indebitamento progressivo. In un sistema poi di welfare maturo la non crescita reale del Pil produce la crescita reale dei costi fissi (sanità, pensioni, ecc.) che viene coperta da sempre maggiori imposte, che riducono il potere di acquisto e gli investimenti. Per sostenere detto potere di acquisto necessario ai consumi si delocalizzano le produzioni in Paesi a basso costo. Ma questo, senza strategie alternative, crea vulnerabilità di produzione e occupazione… In pratica crea la situazione cui siamo arrivati».
Se la demografia, e per altro verso la solitudine, stanno alle radici della crisi, allora la famiglia è la prima risposta alla crisi. Ma, come ha detto Papa Francesco aprendo il Concistoro sul tema, «la famiglia oggi è disprezzata, è maltrattata». Dire sì alla famiglia – il che implica dire no a chi disprezza e maltratta la famiglia – è dunque la conclusione e insieme l’inizio di tutto, l’ultimo, ma per importanza il primo, «comandamento» della dottrina sociale oggi.
Tutto questo c’entra molto con la grande mobilitazione di popolo che in Italia con i comitati Sì alla famiglia, le Sentinelle in piedi e altre iniziative sta portando nelle piazze e nelle sale ogni giorno, ogni sera decine di migliaia di persone, che difendono la famiglia e rifiutano il cammino che secondo qualcuno dalla legge contro l’omofobia dovrebbe portare inesorabilmente al «matrimonio» e alle adozioni omosessuali. C’entra molto con tutte le dimensioni della crisi, economia compresa. Se si diffondono più modelli alternativi di famiglia diminuisce il numero di famiglie. Se si diffondono più modelli alternativi di matrimonio, la confusione sociale sull’idea stessa del matrimonio fa diminuire i matrimoni. La propaganda LGBT cita in contrario uno studio del 2013 di Alexis Dinno e Chelsea Whitney, due ricercatori dell’Università di Portland secondo cui negli Stati degli Stati Uniti che hanno introdotto il «matrimonio omosessuale» i matrimoni tra un uomo e una donna non sono diminuiti. Il testo è stato pubblicato su «Plos One», che non è, come si vuole far credere in Italia, una rivista prestigiosa ma un giornale online che afferma di sfidare le convenzioni accademiche pubblicando quello che le riviste universitarie rifiutano e intanto funziona come un vanity journal, cioè si fa pagare dagli autori degli articoli. Comunque, se si legge bene lo studio di cui pure gli autori sono attivisti militanti in favore del «matrimonio» fra persone dello stesso sesso, si scopre che gli stessi ricercatori considerano il «matrimonio» omosessuale d’introduzione troppo recente perché le serie statistiche che hanno raccolto possano essere significative. Ovviamente, il danno non si produce nel minuto esatto in cui uno Stato introduce il «matrimonio» omosessuale per legge. I matrimoni diminuiscono a causa di un clima culturale di cui le leggi sono solo una delle componenti.
Meno matrimoni significa meno figli. Quando espongo questa tesi in pubbliche conferenze, trovo quasi sempre qualche cortese oppositore che si alza e, con un sorrisetto ironico, mi fa notare che una donna non sposata è altrettanto capace di fare figli di una donna sposata. Di norma ringrazio l’interlocutore per la straordinaria rivelazione – senza di lui, gli dico, non ci sarei mai arrivato – ma gli spiego anche che sto parlando d’altro. Non mi sto occupando di ginecologia, su cui non ho alcuna competenza, ma di sociologia.
Un ginecologo ci dirà che le donne non sposate hanno la stessa possibilità biologica di fecondità delle donne sposate. Ma il sociologo ci rivelerà che le donne non sposate hanno un tasso di fecondità più basso. Lo dicono i numeri, e non c’è ideologia che riesca a cambiarli. Anche qui, si obiettano studi secondo cui in Paesi dove sono aumentate le coabitazioni e diminuiti i matrimoni – tra cui la Svezia e la Norvegia – il tasso di natalità non è diminuito in modo significativo. Queste statistiche non ci dicono però nulla sul tasso di fertilità delle singole donne, sposate e non sposate, e cozzano contro gli studi molto dettagliati sugli Stati Uniti dello U.S. Census Bureau, da cui emerge con chiarezza come le donne sposate siano più feconde. Estraendo e componendo i dati dal censimento americano del 2008 emerge come la percentuale di donne senza neppure un figlio era del 77,2% fra le donne non sposate e del 18,8% fra le donne sposate. Il numero medio di figli per ogni gruppo di mille donne sposate era di 1.784, per ogni gruppo di mille donne non sposate di 439. Le nascite medie all’anno su mille donne sposate erano 83,6, su mille donne non sposate della stessa età 41,5. E il dato statistico non è poi così sorprendente. Fare un figlio non è un semplice fatto biologico. Senza prospettive di stabilità e sicurezza per allevarlo ed educarlo, è più difficile che una donna decida oggi d’intraprendere quest’avventura, ed eventualmente resista alle sirene dell’aborto.
I dati confermano dunque le parole del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, all’Assemblea Generale dei Vescovi italiani del 21 maggio 2013: «La famiglia non può essere umiliata e indebolita da rappresentazioni similari che in modo felpato costituiscono un vulnus progressivo alla sua specifica identità». Tali «rappresentazioni similari» indeboliscono e, come dice il cardinale Bagnasco, «umiliano» la famiglia, creando un clima dove ci saranno meno famiglie, meno matrimoni, meno figli, meno produttori, meno consumatori, dunque più debito, più deficit, più crisi, più impoverimento, più disperazione.

Vogliamo uscire dalla crisi? Lavoriamo per la famiglia. È il tempo della prudenza, del lavoro, della generosità. Ma è soprattutto il tempo della preghiera.
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I princìpi non negoziabili. Perché bisogna parlarne ancora

di Stefano Fontana
Conferenza a Verona, 11 marzo 2014


Che cosa sono

Spesso si parla di “valori” non negoziabili anziché di “princìpi” non negoziabili, ma si tratta di un errore di impostazione. 

Principio vuol dire fondamento e criterio. Il principio è l’elemento che regge e illumina un certo ambito. Il principio tiene insieme le cose e le indirizza, le orienta al loro fine. Ne consegue che il principio non può essere un elemento della serie, nemmeno il primo. Essere un principio non vuol dire stare cronologicamente all’inizio, come il primo gennaio sta al principio dell’anno. Il principio ha un primato: viene prima, ove l’avverbio prima non è solo temporale.

Cos’è, invece, un valore? Una cosa ha valore quando è apprezzabile. Ora, la vita o la famiglia o la libertà di educazione – per citare qui i principali tra i principi non negoziabili – sono certamente dei valori, sono degni di apprezzamento e di promozione. Come tanti altri aspetti della vita umana e sociale, del resto. Come l’arte, la solidarietà, la conoscenza, la salute, la buona cucina.

Come si vede essere un valore non vuol dire anche essere un principio. La casa in proprietà è un valore ma non è un principio ordinatore della vita sociale. Ciò non toglie che un valore possa essere anche un principio. La vita umana, per esempio, è un valore ma è anche un principio, in quanto è in grado di illuminare con la sua luce l’intera vita sociale e politica. Se si offusca il rispetto della vita non si offusca solo un valore, ma anche altri valori ed altri aspetti della vita che quel principio illumina.

Il bene comune non è un insieme di valori aventi tutti lo stesso peso, ma è un insieme ordinato. Per essere ordinato vuol dire che qualche valore ha una funzione arichitettonica, ossia indica i fondamenti del bene comune e, così facendo, illumina di senso anche tutti gli altri. Senza un criterio non c’è bene comune ma somma di beni particolari e questo criterio ci proviene dai principi non negoziabili.
Abbiamo allora stabilito cosa voglia dire la parola principio. Vediamo adesso cosa voglia dire l’espressione “non negoziabile”. Se si tratta di princìpi, ossia se sono qualcosa che viene prima e che fonda, essi non dipendono da quanto viene dopo ed hanno valore di assolutezza, non sono disponibili. Non sono negoziabili perché assoluti e sono assoluti perché sono dei princìpi. Se fossero relativi non potrebbero essere princìpi, non starebbero prima, sarebbero uno dei tanti elementi della serie. O si nega l’esistenza di princìpi, oppure se si ammette la loro esistenza essi devono essere assoluti ossia non negoziabili. Tale valore di assolutezza risulta anche dall’esperienza della loro mancanza. Quando manca il riferimento ad essi una società perde la bussola e subisce una involuzione. Questo vuol dire che non sono essi ad essere relativi alla società ma è la società ad essere relativa ad essi. Ecco quindi il motivo ultimo del perché non possono essere negoziabili: perché non sono stati negoziati. Se una cosa viene negoziata, allora vuol dire che è negoziabile e può in seguito essere rinegoziata. Ma un principio non può essere rinegoziato perché non era mai stato negoziato prima, in quanto non negoziabile. Altrimenti che principio sarebbe? In una società senza princìpi non negoziabili tutto è negoziabile, compresa la negoziabilità.
I princìpi non negoziabili, quindi, sono tali in quanto precedono la società. E da dove derivano? Essi sono non negoziabili perché radicati nella natura umana. Proprio perché fanno tutt’uno con la natura umana, non possono essere presi a certe dosi, un po’ sì e un po’ no: o si prendono o si lasciano. Questa è vita umana o non lo è. Questa è famiglia o non lo è. I principi non negoziabili demarcano l’umano dal non umano e quindi sono il criterio per una convivenza umana.
Da un altro punto di vista, però, essi non sono propriamente dei principi primi, perché non sono capaci di fondarsi da soli. Come abbiamo visto, essi si basano sulla natura umana, ma la natura umana su cosa si fonda?  I princìpi non negoziabili esprimono un ordine che rimanda al Creatore.
Se non esistono princìpi non negoziabili la ragione non trova un ordine che rinvia al Creatore. Essa non incontra più la fede e  la fede non incontra più la ragione. Ciò significa l’espulsione della religione dall’ambito pubblico. La vita sociale e politica sarebbe solo il regno del relativo. Cosa ci starebbe a fare la fede in un simile contesto? Dio si sarebbe scomodato a parlarci per aggiungere la sua opinione alle nostre?
Quali sono
Precisare quali sono i principi non negoziabili è di fondamentale importanza. I testi fondamentali del magistero sono tre.
Al paragrafo 4 della Nota dottrinale su alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica Congregazione per la Dottrina della Fede (24 novembre 2002) sono indicati i seguenti princìpi non negoziabili: vita, famiglia, libertà di educazione, tutela sociale dei minori, libertà religiosa, economia a servizio della persona, pace.
Nell’Esortazione apostolica post sinodale Sacramentum caritatis sull’Eucaristia del 22 febbraio 2007 (par. 83), Benedetto XVI cita vita, famiglia e libertà di educazione a cui aggiunge il bene comune.
Nel Discorso ai Partecipanti al Convegno del Partito Popolare Europeo del 30 marzo 2006, Benedetto XVI elenca vita, famiglia e libertà di educazione.
Entriamo nel merito di questi elenchi. La prima cosa da osservare è che tre principi sono sempre presenti e sempre collocati all’inizio di ogni elenco, in posizione quindi eminente; vita, famiglia e libertà di educazione.
Questo indica che quei tre principi hanno un carattere fondativo: nessun altro dei principi successivi può essere né adeguatamente compreso né efficacemente perseguito senza di essi. E’ possibile, per esempio, garantire la tutela sociale dei minori se ai minori si impedisce di nascere? E’ possibile farlo impedendo loro di godere di una famiglia unita e stabile? E’ possibile ottenere questo risultato esautorando la famiglia del suo diritto-dovere di educare i figli? Se rimane sana la famiglia, alla lunga anche le varie forme di disagio sociale dei minori trovano soluzione.
Secondariamente indica che quei tre principi ci pongono davanti a degli assoluti morali, ossia ad azioni che non si devono mai fare in nessuna circostanza. Per gli altri principi elencati nella Nota del 2002 non è così. Per esempio, essa annoverava tra i principi non negoziabili anche una “economia a servizio della persona”. Non c’è dubbio che la lotta alla disoccupazione sia un elemento importante del bene comune. Tuttavia, per perseguire la piena occupazione le strade possono essere diverse. Nel caso, invece, dei tre principi di cui ci stiamo occupando, non ci sono strade diverse. Anzi, in quei casi di strade non ce ne sono proprio. La differenza dipende dal fatto che la frase “non uccidere” e la frase “sviluppa l’occupazione” sono molto diverse quanto a cogenza morale. La prima impone un assoluto morale negativo, qualcosa quindi che non si deve mai fare, la seconda propone un precetto morale positivo, indica cosa si deve fare. Ora, mentre il male assoluto non si deve mai fare, il bene può essere fatto in molti modi. La coscienza, assieme alla virtù della prudenza, non viene esercitata nel caso dei precetti morali negativi - sacrificare due embrioni umani invece che tre non è un male morale minore; abortire una volta anziché due non è un male morale minore - mentre può esercitarsi nei casi di quelli positivi.
Molti accettano queste mie considerazioni per i primi due princìpi – la vita e la famiglia – ma non l’accettano per il terzo: la libertà di educazione. La libertà di educazione è fondamentale in quanto pone o toglie la possibilità che l’anima del bambino sia iniziata alla verità piuttosto che all’errore, al bene piuttosto che al male, a Dio piuttosto che al Principe delle tenebre. Il problema è quello della educazione e del suo ruolo decisivo nella nostra vita. Se è possibile educare allora tutto è rimediabile, ma se alle famiglie e alla Chiesa viene tolta la possibilità di educare è la fine per tutti e per tutto.
C’è solo un altro principio tra quelli elencati nella Nota del 2002 che potrebbe contendere il “primato” a questi tre: il principio della libertà di religione. Esso nasce dal dovere di cercare la verità fino alla radice, ossia fino a misurarsi con Dio. Però il diritto alla libertà religiosa non è assoluto, in quanto vale solo dentro il rispetto della legge di natura, il cui rispetto è fondamentale per il bene comune.  Professare e praticare una religione che contenga elementi contrari alla legge naturale non può essere un diritto né avrebbe titolo morale per un riconoscimento pubblico.
Da queste considerazione si deriva che tra i primi tre princìpi elencati e gli altri c’è una differenza. Se mancano i primi tre, tutto l’elenco viene meno, mentre se ci fossero solo i primi tre, ci sarebbe già il nucleo portante di tutto il discorso. Ed infatti capita spesso, come abbiamo visto, che il magistero elenchi solo i primi tre, ma non capita mai che ne elenchi altri senza questi tre.
Equivoci sui princìpi non negoziabili
Molti cattolici criticano o perfino irridono i principi non negoziabili, considerandoli un impedimento al dialogo. Altri fanno notare che il dialogo per essere significativo ha bisogno di limiti, dati appunto da questi principi. Ne nascono molti equivoci.
Su un primo equivoco, ossia intenderli come valori e non come princìpi, ho già detto. Esso comporta per esempio il classico errore di valutazione: se un partito propone l’aborto e lotte efficaci alla povertà mentre un altro partito è contro l’aborto ma ha misure meno efficaci contro la povertà io posso decidere liberamente per ambedue perché si tratta solo di valori.
Un altro degli equivoci più frequenti è pensare che i princìpi non negoziabili comporterebbero la rinuncia da parte dei cattolici ad un pensiero politico completo in luogo della richiesta di garanzie su singoli temi specifici. I princìpi non negoziabili non sono singoli temi ma princìpi e quindi riferirsi ad essi comporta sempre l’accettazione di una prospettiva, che si ripercuote inevitabilmente anche su altri punti. In certe fasi storiche si è costretti ad attestarsi maggiormente sui singoli princìpi, perché le minacce sono incombenti. Ma questo non vuol dire che se ne dimentichi il valore illuminante per l’intero programma sociale e politico.
Un terzo equivoco consiste nel considerare i princìpi non negoziabili come contrari all’essenza della democrazia. Questa sarebbe il sistema che ha al centro la persona umana, ma siccome la persona è continuamente da approfondire nel dialogo e non si arriverà mai al punto finale, serve il confronto politico e serve anche affidarsi in conclusione alla legge della maggioranza. Che una realtà debba essere continuamente approfondita secondo il principio di coerenza è vero, ma questo non vuol dire che non si possa conoscere niente di certo e definitivo su di essa, talmente certo e definitivo da doverlo porre al riparo anche dalla legge della maggioranza. I princìpi non negoziabili non pretendono di dirci tutto su una società umana ma di dirci gli aspetti senza dei quali non è società umana. Se la panoramica completa dell’uomo non ci è data – almeno quaggiù -, questi ci sono dati in tutta la loro chiarezza e cogenza.
Un quarto equivoco riguarda i mezzi e i fini. Si dice che la politica riguarda i mezzi e non i fini. Infatti, si sostiene, esistono diversi partiti politici perché i cittadini possano prudentemente adoperare l’uno o l’altro partito per realizzare i loro fini. Questo giustificherebbe la presenza dei cattolici in tutti i partiti. Cittadini che hanno fini uguali si dividono poi nella scelta del partito che, come un mezzo, può realizzare meglio i fini. Di solito si tira in campo la virtù della prudenza con la quale la coscienza morale cala nella situazione concreta i princìpi morali generali, insomma sceglie i mezzi più idonei per realizzare i fini.
La prima cosa da dire è che la politica riguarda anche i fini e non solo i mezzi. La seconda cosa da dire è che i mezzi sono ordinati al fine, quindi non possono contraddirlo. La prudenza applicata ai mezzi cattivi diventa imprudenza. Se per conseguire il fine della difesa della vita io mi affido al mezzo di un partito che promuove l’aborto non ho esercitato la prudenza, ma sono stato imprudente. La scelta del partito ha a che fare con i fini, dato che la politica riguarda anche i fini, ed ha poi a che fare con la scelta dei mezzi, che devono però essere buoni, ossia congrui rispetto al fine. Questo discorso sta alla base del fatto che se si accettano i princìpi non negoziabili non si può aderire indifferentemente a tutti i partiti, perché alcuni di essi sono connessi con altri fini contrari e altri di essi sono dei mezzi inadatti al fine.
Un ultimo frequente equivoco è di ritenere che ammettere i princìpi non negoziabili significhi negare la laicità della politica, facendola dipendere da principi confessionali. I princìpi non negoziabili sono dei princìpi ragionevoli che possono essere riconosciuti da tutti gli uomini. La stranezza non sta nel fatto che siano riconosciuti, ma semmai nel fatto che siano negati. Quindi appartengono al campo della laicità, se per laicità intendiamo l’ambito della ralgione pubblica, la quale stabilisce i princìpi e i fini del vivere comunitario. Se, invece, per laicità si intende l’assenza di qualsiasi verità assoluta, anche di tipo razionale, allora non si tratta di vera laicità, ma di una nuova religione dell’individuo assoluto e dei suoi desideri.
Dipendendo dai princìpi non negoziabili, quindi, la politica non dipende da princìpi confessionali, ma semplicemente dal “senso” di se stessa.
Princìpi non negoziabili ed obiezione di coscienza
Poiché la politica assume sempre di più l’arroganza di contrastare i princìpi non negoziabili l’obiezione di coscienza oggi è sempre di più un problema politico e non solo morale.
Fanno obiezione di coscienza i farmacisti, che non vogliono vendere la pillola del giorno dopo in quanto ha effetti abortivi,  le ostetriche e i medici che non vogliono collaborare nel praticare aborti, anche se la legge lo permette, gli impiegati comunali, che non vogliono registrare le coppie omosessuali negli appositi registri pubblici o che non vogliono celebrare pubblicamente matrimoni che tali non sono, molti insegnanti che non vogliono piegarsi all’ideologia del gender, i genitori, quando decidono di non far partecipare i propri figli a distruttivi corsi scolastici di educazione sessuale, i lavoratori che non rinunciano al loro diritto di esibire un segno religioso quando sono in servizio, mentre l’amministrazione da cui dipendono lo vieta, le infermiere, quando reagiscono al divieto dell’amministrazione sanitaria di confortare religiosamente i morenti; invitano all’obiezione di coscienza i Vescovi americani contro la riforma sanitaria di Obama, fanno obiezione di coscienza gli operatori del consultori della Toscana dove adesso dovranno anche somministrare la pillola abortiva.  Ci sono persone che perdono il posto di lavoro per la fedeltà ai princìpi non negoziabili.
Perché avviene questo? Perché ci sono dei princìpi non negoziabili, davanti ai quali la nostra coscienza, come quella di Socrate o di Antigone, trova la forza di dire un no assoluto. Ora, mi chiedo, perché questo non dovrebbe valere in politica? Perché in politica si dovrebbe comunque arrivare ad un compromesso? E a questo compromesso in politica si dovrebbe anche dimostrare rispetto e deferenza, lodando la persona che è scesa a mediazione come un esempio di saggezza, prudenza e perfino coraggio?
La cosa è ancora più evidente se la si esamina dal punto di vista della testimonianza. Quante volte si dice che il cattolico è in politica per dare una testimonianza. Però, se non esiste la possibilità del sacrificio, se non c’è mai nessun “no” da dire a costo di perdere qualcosa, la testimonianza come si misura? E’ facile impegnarsi in politica applauditi e ben retribuiti. E non è sufficiente non commettere illeciti o immoralità. Bisogna anche essere disposti a pagare davanti a dei princìpi che la nostra coscienza ritiene non negoziabili. A Socrate il suo amico Critone aveva proposto la fuga, ma Socrate ha risposto di no.
Politicamente parlando, il principale sacrificio per un uomo politico sono le dimissioni. Bisogna riconoscere che sono rarissimi  i politici che pur di non dare il loro assenso ad una legge contraria alla legge morale naturale si siano dimessi dal loro incarico. Nella memoria collettiva è pure ancora presente l’autosospensione temporanea del re del Belgio Baldovino, che non volle apporre la propria firma sotto la legge sull’aborto, in ciò non seguito nei giorni scorsi da suo nipote Filippo a proposito della legge sull’eutanasia dei bambini.
Il vero uomo politico è colui che sa anche rinunciare alla politica. Si è uomini prima e dopo la politica. E’ questo che dà senso alla politica stessa. Se tengo aperto il campo della mia umanità tramite una fedeltà alla retta coscienza che giudica la stessa politica, faccio respirare anche la politica. Molti dicono: non si deve abbandonare il campo (per esempio con le dimissioni) perché in questo modo lo si lascia agli altri e si recede dalla doverosa lotta politica. Ma la politica la si può fare in tanti modi e in tanti luoghi. Senza contare che, anche un eventuale atto di dimissioni per motivi di coscienza sarebbe già un atto politico, denso di possibili conseguenze politiche imprevedibili in quel momento. Del resto, un vero leader politico è uno che sa dire anche di no. Lo sa dire agli altri perché lo sa dire a se stesso. Chi non sa dirlo a se stesso non ha diritto di dirlo agli altri.
E’ evidente che l’obiezione di coscienza in politica è possibile se in politica si danno princìpi non negoziabili. Si cerca in tutti i modi di eliminare la libertà di coscienza per eliminare i princìpi non negoziabili e si cerca di eliminare i princìpi non negoziabili per eliminare la libertà di coscienza. L’esistenza dei princìpi non negoziabili rende libera la nostra coscienza.  
Quando un uomo politico fa obiezione di coscienza in quanto uomo politico, il fatto ha valore politico e non solo personale. Ammettiamo che gli uomini di Stato e di governo che hanno sottoscritto nel 1978 la legge 194 sull’aborto in Italia avessero fatto obiezione di coscienza e si fossero dimessi dalla loro carica. Sarebbe stato un atto politico di primaria importanza, un atto che avrebbe continuato a fare politica nei secoli. Questo perché avrebbe significato la denuncia di un ordine sociale che si stava costruendo come disordine. Non si sarebbe trattato di una semplice fedeltà ad una opinione personale, né ad una semplice, anche se importante, convinzione di coscienza, ma il tutto si sarebbe riferito ad un ordine sociale legittimo e ad uno illegittimo. Inevitabilmente il discorso si sarebbe dislocato sul prima, su quanto precede e fonda la comunità e su quanto merita riconoscimento pubblico e quanto no. Chi può negare con assoluta certezza che un atto del genere non avrebbe cambiato la storia politica del nostro Paese?
Ecco perché oggi c’è la necessità di insistere sui princìpi non negoziabili in ordine alla obiezione di coscienza in campo politico. Da essa dipende il collegamento della politica con il prima che la precede e la fonda.
In questo modo la politica è costretta a fare i conti con la modernità. Questa, infatti, ha annullato il “prima” e ha preteso di cominciare da zero, nella forma del contratto sociale. E’ stato giustamente osservato che il primo moderno è stato Guglielmo di Occam, secondo il quale dietro all’ordine delle cose e dietro all’ordine morale non c’era un disegno ma l’arbitraria volontà divina. Su questa piazza pulita la politica moderna di Hobbes o Rousseau costruì il convenzionalismo del contratto sociale. Se si eliminano i princìpi non negoziabili finisce il “prima” della politica e la visione moderna avrebbe irrimediabilmente vinto senza possibilità di alcun riscatto. La consegna al contratto sociale sarebbe definitiva.

Però della modernità fa parte anche Tommaso Moro, che Giovanni Paolo II ha proclamato Protettore dei politici. E Tommaso Moro fece obiezione di coscienza, ben sapendo che in quel modo egli esercitava un supremo atto politico, denso di conseguenze politiche nei secoli. Il suo atto, infatti, divenne simbolo dell’indipendenza della legge morale sul potere e alimentò le lotte per la difesa della libertà di coscienza lungo la storia moderna.
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Amate l'amore umano. O non ne usciremo

di Marco Invernizzi
Newsletter della Comunità Ambrosiana, 16 marzo 2014



Care amiche, cari amici



È stata pubblicata una importante intervista all'arcivescovo di Bologna, card. Carlo Caffarra, in tema di matrimonio, sessualità e divorziati risposati (il Foglio, 15 marzo 2014).


Importante perché contribuisce a portare un poco di chiarezza dopo la confusione provocata dalla relazione del card. Walter Kasper.

Questa intervista anzitutto ricorda il metodo dell'esortazione apostolica Familiaris consortio del beato Giovanni Paolo II (1981), che consiste nel guardare sempre al principio fondamentale del tema di cui si sta trattando, liberando così la morale dalla casistica e dalla contrapposizione dialettica fra certezza della dottrina e attenzione alla persona. Giovanni Paolo II fece così non soltanto nell’importante esortazione apostolica (che non è superata, anche se non affronta il tema del gender, che allora non era ancora all'ordine del giorno) ma anche nelle 134 catechesi sull'amore umano che tenne dal 1979 al 1984 nelle udienze del mercoledì e che costituiscono la "teologia del corpo", forse uno dei lasciti più importanti del pontificato, e che dovrebbero stare alla base dei corsi prematrimoniali.

Ritornare al principio significa uscire dalle sterili polemiche che affliggono e dividono la Chiesa oggi e cercare invece nel progetto di Dio, all'inizio, la verità e il bene per le persone. Il matrimonio infatti, spiega Caffarra, è indissolubile e non può essere sciolto neppure dal Pontefice, se è valido, come ribadì proprio Giovanni Paolo II nel discorso alla Sacra Rota del 21 gennaio 2000. Quindi la discussione sulla possibilità di dare la comunione ai divorziati è una non discussione, per la cui soluzione il cardinale di Bologna invita a rileggere proprio la Familiaris consortio.
L'intervento di Caffarra ricorda anche come sia stata profetica l'enciclica di papa Paolo VI Humanae vitae, che nel 1968 denunciò il fatto che, separando procreazione e sessualità coniugale, si creavano le basi del successivo disfacimento della famiglia e della imponente crisi demografica: from sex without babies to babies without sex, scrive Caffarra fotografando la situazione attuale.

Ma la cosa che mi colpisce di più nelle sue parole è l'invito, implicito ma evidente, rivolto in modo speciale ai parroci, ai vescovi, a chi si occupa di matrimonio e famiglia, a prendere dal tesoro del Magistero cattolico la forza della verità per affrontare le soluzioni pastorali che riguardano le coppie di sposi. Soluzioni che si preoccupino certamente dei grandi problemi di oggi, del fatto che un "pensiero avverso" è penetrato nella cultura dominante e soprattutto che oggi i matrimoni spesso non sono validi, spesso si sfaldano nel giro di pochi anni e ciononostante la Chiesa deve amare queste persone ferite e preoccuparsi della loro salvezza con un'attenzione e uno zelo ancora maggiori di quello previsto per chi non ha conosciuto questo tipo di ferite.
Tuttavia il richiamo di Caffarra è alla bellezza del progetto di Dio sulla sessualità che lega l'uomo e la donna nel matrimonio per sempre. Se non ci convinceremo che la prima preoccupazione dell'educazione dei giovani deve consistere nel mostrare loro la bellezza del matrimonio che fonda la famiglia e quindi nell'insegnare un'antropologia adeguata, non riusciremo mai a risalire la china. Ha scritto bene lo statistico Roberto Volpi che i giovani oggi non si sposano soprattutto perché non desiderano fare famiglia, non la ritengono un ideale da perseguire.

Allora cerchiamo di attrezzarci in questo senso. Le catechesi sull'amore umano sono troppo lunghe e difficili? Leggiamo e usiamo la Familiaris consortio. E se anche quest'ultima risultasse ostica segnalo tre piccoli libri, scritti da un laico francese, Yves Semen, filosofo e padre di sette figli: La sessualità secondo Giovanni Paolo II (2005, 5 ed.), La famiglia secondo Giovanni Paolo II (2012), La spiritualità coniugale secondo Giovanni Paolo II (2011, 2 ed.).
Leggeteli, vi faranno bene e soprattutto faranno innamorare del Padre e della sua attenzione verso i figli. 
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Gli inferni delle donne? Sorpresa, sono nel Nord Europa

di Rino Cammilleri (*)
La nuova Bussola Quotidiana, 14 marzo 2014



L’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali ha creduto bene, alla vigilia della Festa della Donna, di rendere nota una sua allarmata ricerca sulla violenza perpetrata ai danni delle donne nei ventotto Paesi della Ue. I risultati della ricerca sono, in effetti, piuttosto tristi (62 milioni di donne vittime di violenze, anche se non necessariamente letali), ma le cifre magari farebbero un altro effetto se, accanto, riportassero quelle sugli uomini. Insomma, è il totale a dovere essere allarmante, non il parziale. Ma la nuova moda è dividere il popolo secondo il «gender», ognuno dei quali «gender» è impegnato a far punire le offese contro se stesso più pesantemente che gli altri. Comunque, era la Festa della Donna e, in attesa dell’istituzione di una Festa Lgbt, andiamo a vedere le risultanze della ricerca Ue. Ebbene, quel che subito salta all’occhio è la classifica dei Paesi «violenti con le donne».

In testa c’è la Danimarca, con un clamoroso 52% di donne oggetto di violenze. Seconda classificata, la Finlandia (47%). In terza posizione la Svezia (46%), seguita a ruota dall’Olanda (45%). L’ultima in classifica è la cattolicissima Polonia (19%). L’Italia si pone diciottesima sui ventotto, ben dietro a Francia, Gran Bretagna e Germania. Una cosa salta subito all’occhio ed è la testa della classifica. Ma come, non erano Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda i paradisi storici dell’emancipazione femminile? Non ci avevano fatto sognare, noi vecchietti, quando, da ragazzi, vedevamo i documentari (chi si ricorda del clamoroso Helga, in cui nei primi anni Sessanta per la prima volta si vedevano donne scandinave così come mamma le aveva fatte?) sulle disinvolte donne del Nord e noi scuotevamo il capo perché quelle nostrane facevano tante storie? E non è sempre da quelle parti che furono inaugurati, in tempi remoti, i primi corsi scolastici obbligatori di educazione sessuale? E non è svedese il primo asilo infantile rigorosamente unisex? Perfino Alberto Sordi sentì l’esigenza di girare un film sul fenomeno, film che ci fece sentire, a noi italiani secolarmente repressi da una Controriforma senza rimedio, come dei poveri arretrati baluba ancora abbarbicati al «delitto d’onore» del Codice Rocco.

Oggi, a Terzo Millennio avanzato, guardiamo sgomenti quella sconcertante classifica e ci chiediamo: è questa l’altra medaglia dell’emancipazione? Forse è proprio l’emancipazione spinta a produrre conflittualità? Si stava meglio quando si stava peggio? Domande da girare a sociologi, psicologi e filosofi, ma senza avere la pretesa di risposte, perché non c’è sociologo, psicologo e filosofo che non parta da una sua visuale precostituita. E vanamente si attenderebbe qualche sociologo, psicologo e filosofo disposto a perdere la cattedra per imprudenza. Tuttavia, carta canta: in testa alla classifica per violenze sulle donne ci sono i luoghi più avanzati, e in fondo c’è la Polonia «semper fidelis». A voi lettori l’ardua sentenza.

C’è da notare, tuttavia, che i media italiani hanno tranquillamente ignorato la notizia. Con un paio di eccezioni, come il quotidiano online Pagina99.it e, guarda un po’, RadioVaticana. Se ne è accorto il collega Mario Natucci che ne ha scritto (ma epistolarmente) al sito, per giornalisti, francoabruzzo.it. Facendo osservare che il Corsera aveva dedicato un’intera pagina a due «femminicidi» italiani avvenuti proprio l’8 marzo, Festa della Donna. E poco spazio (per giunta nell’inserto che possono leggere solo i milanesi) al «maschicidio» di uno che era stato ammazzato a martellate dalla moglie e dalla figlia. Pochi giorni dopo, una donna aveva ucciso a coltellate le sue tre figlie, ma tutta l’attenzione era stata riservata al marito che se ne era andato di casa con un’altra. Insomma, il vero colpevole era lui. Sì, perché ormai, qualunque cosa succeda, il grido non è più il classico «cherchez la femme!» (copyright Alexandre Dumas padre, 1854), bensì «cherchez l’homme!».

Se andiamo a rileggere Le donne al parlamento di Aristofane (391 a.C.), vediamo una singolare anticipazione, al dettaglio, del mondo nel quale ci tocca vivere. Basta sostituire «schiavi» con «macchine» e c’è già tutto, «quote rosa» comprese. Solo che Aristofane scherzava. Naturalmente, le «donne al parlamento» (e nei consigli di amministrazione, nel clero, dappertutto fuorché in casa) vanno bene finché non diventano «di ferro», altrimenti, come nel caso di Margaret Thatcher, si stappa lo spumante sulla loro tomba dopo averle sputacchiate mentre erano in vita.


La ricerca europea, tuttavia, manca di parlare dell’incidenza dell’immigrazione. Forse, due opzioni egualmente politicamente corrette hanno costretto a una scelta. Infatti, i Paesi in cima alla classifica sono anche quelli più popolati, in percentuale, da musulmani (l’olandese Rotterdam, per esempio, pare avviata a diventare una città islamica, e la svedese Stoccolma ha dovuto affrontare per la prima volta nella sua storia una «rivolta delle banlieues», zeppe di immigrati). Per i quali, forse, la locale e avanzata emancipazione femminile è un pugno nell’occhio buono, specialmente quando ne vedono contagiate mogli e figlie. Se andassimo a vedere, sempre per esempio, le percentuali di stupri in detti Paesi e volessimo sapere chi sono, sempre in percentuale, gli stupratori, magari avremmo un’altra sorpresa (si fa per dire) politicamente scorretta. Eh, non vorrei essere nei panni degli apprendisti stregoni della political correctness: deve fumar loro il cervello.
Il suicidio del «cattolicesimo democratico»

di Marco Invernizzi
Newsletter della Comunità Ambrosiana, 1 marzo 2014



Care amiche, cari amici



Con l'ingresso del Partito democratico nel PSE, il Partito del socialismo europeo, si compie quanto Antonio Gramsci aveva profetizzato l'1 novembre 1919 a proposito dei popolari, il cui compito nel movimento cattolico sarebbe stato quello di amalgamare e quindi di suicidarsi. La cosa significativa è che questo percorso avviene quando segretario del Pd è diventato Matteo Renzi, che appunto proviene dalla storia democristiana e che ha celebrato questo evento intervenendo a Roma al congresso dei socialisti europei il primo di marzo.



Certo, oggi i socialisti europei sono un vago assortimento di esperienze politiche, tutte molto liquide, espressione palese del predominio culturale del relativismo, che ammazza tutte le identità, anche quelle ideologiche negative. E tuttavia una riflessione varrebbe la pena su questo esito, che ha lasciato amareggiato il povero Giuseppe Fioroni, anche lui come Renzi proveniente dall'ambiente scout, l'unico a votare contro nella direzione del Pd, testimone triste di un itinerario che appunto ha portato i cattolici democratici a suicidarsi prima nel Partito democratico a livello nazionale e poi nel Partito socialista a livello europeo.



La storia di questo suicidio è istruttiva. Comincia nel 1919 con la fondazione del Ppi di don Luigi Sturzo (che non se lo sarebbe mai augurato né aspettato) e termina oggi. Un ruolo importante è stato svolto dalla Lega democratica, l'espressione politica più significativa e influente del cosiddetto cattolicesimo democratico italiano. Questa realtà, fondata nel 1975 dopo il referendum sul divorzio e scioltasi nel 1987, è stata studiata in un recente libro di Lorenzo Biondi (La Lega democratica. Dalla Democrazia Cristiana all'Ulivo: una nuova classe dirigente cattolica, Biella, 2013). Nata per iniziativa di alcuni intellettuali del mondo cattolico come Pietro Scoppola e Achille Ardigò, essa non superò mai i duecento iscritti ma ebbe un ruolo importante, a tratti egemonico, nella vita politica del cattolicesimo italiano. Essa voleva portare i cattolici italiani che votavano per la Dc, in gran parte conservatori o moderati, a un'alleanza progressista con i partiti della sinistra che però avrebbe dovuto svolgere rigorosamente una politica di sinistra. Se fallì come associazione, appunto sciogliendosi nel 1987, formò peraltro una significativa classe dirigente che, dopo la riforma elettorale in senso maggioritario, confluì nell'Ulivo e arrivò a esprimere due Presidenti del Consiglio, entrambi già esponenti della Lega democratica, Romano Prodi ed Enrico Letta. 

Spesso, quando vogliamo ricostruire la storia, invece di cercare improbabili complotti operati da società più o meno segrete, sarebbe più utile portare a conoscenza del grande pubblico quelle informazioni, culturali e politiche, che ci aiutano a comprendere meglio la tristezza del nostro tempo.

Marco Invernizzi
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Il diritto naturale secondo Joseph De Maistre

di Rino Cammilleri
La nuova Bussola Quotidiana, 1° marzo 2014

Qualcuno dei più anziani tra voi, cari lettori, avrà nella sua biblioteca uno dei classici del pensiero politicamente scorretto, Le serate di San Pietroburgo di Joseph De Maistre, conte savoiardo e ambasciatore presso lo Zar (il libro uscì per la prima volta nel 1821). Se non ne ha mai sentito parlare, ma il nome De Maistre non gli è nuovo, forse si ricorda vagamente quando al liceo l’insegnante di francese gli faceva studiare in lingua originale Colomba o Il lebbroso della città di Aosta. Erano opere di Xavier De Maistre, letterato e fratello del Nostro. Chi ha già il libro di Joseph, ha per forza l’edizione Rusconi dei primi anni Settanta, quando il compianto editor Alfredo Cattabiani faceva conoscere agli italiani chicche come Il Signore degli Anelli, e scusate se è poco.
Ma, quelli più giovani, con molta probabilità nulla sanno delle Serate di San Pietroburgo. Perciò, consiglio loro di mettere nella loro biblioteca, nella sezione «pietre miliari», la nuova edizione Fede & Cultura, completamente ritradotta da Carlo Del Nevo (che ci ha pure messo qualcosa come settecento note erudite) e prefata da Ignazio Cantoni (figlio di Giovanni, il fondatore di Alleanza Cattolica), il quale, di suo, ha impiegato quaranta pagine e centocinquanta note. Per i più giovani: se vi spaventano questi numeri, sappiate che il libro può essere anche aperto a caso (sono «serate», cioè colloqui). Dovunque lo apriate vi intrigherà. E finirete col leggerlo tutto, anche se a pezzi.
Ecco, il sottoscritto dà l’esempio per primo. Apre a caso e si imbatte in un passo in cui il Conte (gli altri personaggi con cui questi parla sono il Senatore e il Cavaliere) disquisisce sulla Dichiarazione Universale dei Diritti giacobina, carta fondamentale con cui i giacobini attribuirono ogni diritto alla loro fazione per toglierli a tutti quelli che non ne facevano parte. Vi ricorda qualcosa? Bene, come sapete, anche oggi ci fondiamo tutti quanti sull’aggiornamento che di quella Dichiarazione fece l’Onu nel 1948. Oggi, a colpi di «diritti umani», come sapete, ancora una volta quattro gatti autocooptati stanno cercando di imporre il loro –ismo preferito, per amore o per forza, al pianeta.
Infatti, ancora una volta, c’è una cricca che per «diritti umani» intende solo l’elenco che ha stilato lei, e gli altri dovranno adeguarsi, piaccia loro o no. Questo, in Occidente. Altrove vigono Dichiarazioni d’altro genere e, alla fine, è solo il deterrente bellico a mantenere l’attuale pluralità. Ciò non toglie che ognuna di queste «carte dei diritti» aspetti solo il momento buono per estendersi al globo. In detto globo l’unica entità che ribadisce l’acqua calda è la Chiesa. E l’acqua calda è questa: esiste una legge naturale, la quale rimanda al Creatore; ogni «dichiarazione di diritti» che non si fondi su di essa non solo è arbitraria e campata in aria ma finisce infallibilmente per produrre inferni in terra. Noi, che abbiamo visto i due secoli di massacri e genocidi seguiti all’antesignana delle Dichiarazioni di Diritti, siamo in grado di apprezzare il genio di De Maistre che li previde prima – addirittura - del 1821.
Nella sua ironia colloquiale così derideva i «diritti» stilati a tavolino da un gruppetto di avvocatuzzi di provincia e gazzettieri falliti che avevano avuto la ventura di scippare il potere: «Certi indiani (dell’India, ndr) dicono che la terra poggia su un grande elefante; e se si domanda loro su che cosa poggi l’elefante rispondono: su una grande tartaruga. Fin qui tutto bene, e la terra non corre il minimo rischio; ma se li si incalza e si domanda ancora loro quale sia il sostegno della grande tartaruga, tacciono e la lasciano per aria».
Joseph De Maistre, Le Serate di San Pietroburgo, Fede&Cultura, pp. 400

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