IN VENETO.... ARIA PESANTE TRA I RISPARMIATORI E GL'IMPRENDITORI

Per i debitori-azionisti di Montebelluna sequestro da 59 milioni
Un illecito aumento del capitale sociale di Veneto Banca fatto con soldi dell’istituto stesso. Un «sistema» utilizzato per «creare una realtà contabile artificiosa da rappresentare a Bankitalia e Consob».
Lo ritiene la Procura della Repubblica di Roma, che ha disposto il sequestro preventivo di 59 milioni di euro per gli ex dirigenti dell’istituto di Montebelluna, Stefano Bertolo (15 milioni), Flavio Marcolini (15 milioni) e Mosè Fagiani (14 milioni). La misura riguarda anche i manager Gianclaudio Giovannone (7,5 milioni), titolare della Mava, e Pietro D’Aguì (7,5 milioni), l’ex manager di Banca Bim che con le sue denunce ha fatto partire una nuova inchiesta della Procura di Roma sulla Vigilanza di Bankitalia.
Stando alle ipotesi del procuratore aggiunto Rodolfo Sabelli e dei sostituti Stefano Pesci e Maria Calabretta, il dominus dell’affaire Veneto Banca sarebbe stato Vincenzo Consoli, l’ex ad dell’istituto per il quale i magistrati hanno già chiesto il rinvio a giudizio. In particolare - è l’ipotesi della Procura - Consoli avrebbe veicolato il denaro dell’istituto nelle casse degli imprenditori, così da indurli a comprare azioni della stessa banca. Una operazione che avrebbe «implementato un sistema funzionale a fornire all’esterno un’artefatta rappresentazione dello stato di salute dell’istituto», consentendo di far aumentare solo «in modo apparente il patrimonio di vigilanza» della banca. Negli atti d’indagine del Nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza, al comando del generale Giovanni Padula, si scopre che il «sistema» aveva lo scopo di celare a Bankitalia e Consob il reale stato di salute della banca. Non solo: dagli atti risultano altri presunti irregolari acquisti di azioni nel 2014, durante l’aumento del capitale sociale, con cui Veneto Banca riuscì a superare gli stress test europei.
Consoli, dunque, resta al centro di un presunto «sistema» di illecita gestione dell’istituto di Montebelluna. Un aspetto che non nascondeva nelle sue conversazioni telefoniche. Ne parlava anche con Flavio Berni, ex vice presidente vicario di Banca Etruria. In un brogliaccio dell’11 febbraio 2015, infatti, sospetta di essere intercettato e afferma: «io se c’è qualcuno che ascolta...», dimostrando, così, di temere indagini a suo carico. Non solo: nella stessa conversazione, Consoli e Berni si lasciano andare a giudizi anche sull’operato di Ignazio Visco: «i due - si legge nell’atto - commentano l’operato di Banca d’Italia, e Consoli giudica un “idiota” Visco, il governatore».
Note, infine, le sue telefonate con Pierluigi Boschi - cui puntava per ottenere favori dalla figlia Maria Elena e dall’ex premier Matteo Renzi - e con l’ex alto dirigente della Banca d’Italia, Vincenzo Umbrella, con cui discuteva della fusione di Veneto Banca con la Popolare di Vicenza.
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Quei veti e controveti per Bpvi-Veneto banca
I mesi cruciali del tentativo di fusione tra Popolare Vicenza e Veneto Banca - ben prima della stentata promozione all’asset quality review di Bce dell’ottobre 2014, con Popolare Vicenza costretta a deliberare una ricapitalizzazione d’urgenza nella notte prima degli esami - a inizio di quell’anno arrivarono a coinvolgere anche i più alti vertici delle istituzioni, compreso il Quirinale quando era ancora presidente Giorgio Napolitano.
La svolta nei contatti tra le due banche, che in più occasioni avevano trattato riservatamente un progetto di aggregazione, arrivò proprio a inizio 2014 al Forex di Milano quando il capo della Vigilanza di Banca d’Italia Carmelo Barbagallo chiese all’ex ad di Veneto Banca Vincenzo Consoli di procedere con rapidità alla fusione con Popolare di Vicenza che i due istituti stavano negoziando ormai da qualche settimana. «Serve subito un incontro con Zonin (all’epoca presidente di Popolare Vicenza) appena torna dal suo viaggio in America», disse Barbagallo a Consoli.
Quel dialogo - avvenuto nella platea del Forex, riportato da Il Sole 24 Ore l’11 febbraio 2014 e mai smentito dai diretti protagonisti - era solo la manifestazione esteriore di un tentativo, probabilmente giustificato dalle evenienze di una doppia crisi incombente, per tentare una fusione tra le due banche che ne evitasse il default (avvenuto poi comunque a metà 2017). Fusione che non fu mai realizzata per l’opposizione di Veneto Banca a uno schema che prevedeva la sostanziale incorporazione di Veneto Banca in Popolare Vicenza.
Il ruolo principale nell’annullare ogni tentativo di merger giocato da vari potentati locali (e non solo). Secondo quanto ricostruito dal Sole 24 Ore, in quelle settimane di inizio 2014, i vertici dei due istituti fecero il cosiddetto giro delle sette chiese per “sponsorizzarsi” come leader del gruppo che doveva nascere dall’integrazione: Autorità locali, sindacati dei bancari, associazioni di imprese, commercianti, artigiani, esponenti politici di centrodestra e centrosinistra del Veneto. Il tentativo di accreditamento di Zonin e Consoli arrivò a sfiorare anche il Quirinale. Secondo quanto ricostruito dal Sole, l’ex amministratore delegato di Veneto Banca Vincenzo Consoli inviò al Quirinale come “promotore” dell’autonomia di Veneto Banca l’anziano ex deputato milanese del Pci, area migliorista, Gianni Cervetti. Tentativo inutile o comunque bilanciato dai vicentini perché, prima di Cervetti, aveva già varcato il portone del Quirinale l’ex ragioniere dello Stato Andrea Monorchio, vice presidente della Popolare Vicenza e uomo di raccordo di Zonin con le istituzioni romane, che aveva già propagandato la forza di Vicenza rispetto a Montebelluna.
L’unico esito di veti e controveti fu solo quello di far naufragare la fusione. Condannando le due banche alla lenta agonia che le ha portate poi nel 2017 alla liquidazione.

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