Dalla Cina con stupore



La Cina divide il mercato. La decisione della Banca centrale del paese asiatico di far svalutare lo yuan (o renminbi) per tre giorni di seguito nei confronti del dollaro (1,9% la prima volta, 1,6% la seconda e poco più dell’1% la terza) sta creando schieramenti contrapposti sulle motivazioni della scelta e sugli effetti che questa potrà avere. Le conseguenze immediate sono state un terremoto sui mercati equity e il fiorire di dubbi sulla tenuta della crescita della prima economia emergente oltre che della congiuntura globale. “Reazioni esagerate”, taglia corto Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. Dal 2005 la Cina non ha fatto altro che rafforzare la sua valuta contro il dollaro. Le svalutazioni di questi giorni, per ora, sono poca cosa rispetto ai livelli a cui erano arrivati".
Cosa vuole la Cina
Sulle motivazioni che hanno spinto la Cina a muoversi le idee sono contrapposte. Le azioni “sono sensate a livello economico e non rappresentano l'inizio di una guerra valutaria o il tentativo di far ripartire la crescita”, spiega uno studio di Standard & Poor’s. Secondo l’agenzia di rating, l'iniziativa di Pechino è più probabilmente legata “a una correzione tecnica” che punta a migliorare il funzionamento del mercato o a uno sforzo per rispettare le condizioni del Fmi per far includere lo yuan il prima possibile nel paniere di valute che costituisce i Diritti speciali di prelievo (Dsr, riserve di asset internazionali il cui valore si basa su un basket di valute chiave). “L’argomentazione che la Cina stia cercando di sostenere la crescita indebolendo la propria valuta e rafforzando l'export non ci sembra convincente”, scrive Paul Gruenwald, capo economista di S&P per l'Asia Pacifico. “Le esportazioni sono più un effetto della domanda estera. Il tasso di cambio che svolge un ruolo secondario. Non esiste alcun motivo per cui questo rapporto sia mutato”.
Resta il fatto che la decisione di Pechino ha già fatto scuola. In seguito alla decisione della PBoC, il Vietnam è intervenuto per mezzo della sua Banca centrale, aumentando del 2% la banda di fluttuazione del Dong vietnamita nel mercato valutario. “Non appena la People Bank of China ha mostrato le armi con le quali vuole sostenere l'economia cinese, export-dipendente, i competitor asiatici ne hanno pagato le conseguenze”, spiega uno studio di Saxo Bank. “Il sospetto, ora, è che tutte le altre autorità monetarie della regione asiatica si adegueranno per difendere le loro valute ed evitare rallentamenti nei mercati interni. Tali impatti, però, potrebbero uscire dai confini asiatici, mettendo in stato di allerta la Bce e la BoJ, che vedrebbero scendere in campo un nuovo concorrente nella guerra valutaria globale”.
Il Paese del Drago, comunque, fa paura. “La Cina ha preso atto del fatto che la sua economia non è più forte come una volta e ha deciso di tornare ad essere competitiva sul mercato globale”, spiega Johnson di Morningstar. “Questo è quello che fa paura veramente agli altri paesi. Bisogna poi aggiungere che la decisione di Pechino avrà effetti deflattivi sulla congiuntura mondiale proprio nel momento in cui si cerca di andare verso una crescita dell’inflazione per consolidare la ripresa economica.
Il benvenuto dell’Fmi
La nuova situazione innescata dalla Cina, intanto, è finita inevitabilmente sotto la lente del Fondo monetario internazionale secondo cui il paese asiatico “può e dovrebbe puntare a raggiungere un sistema di tassi di cambio flessibile entro due o tre anni”. L'istituto di Washington dice di giudicare come un “passo benvenuto” il nuovo meccanismo adottato dalla Banca centrale cinese per determinare il fixing del renminbi visto che “dovrebbe permettere alle forze del mercato di avere un ruolo maggiore nel determinare il tasso di cambio”. Del resto era stato proprio il Fondo, il 5 agosto, a dire che la Cina doveva fare di più per liberalizzare il suo sistema valutario al fine di far conquistare lo allo yuan lo status di valuta di riserva all'interno del basket di cui fanno parte dollaro americano, euro, sterlina e yen.
Ma l'Fmi precisa anche che l’esatto impatto della mossa di Pechino “dipenderà da come il nuovo meccanismo sarà implementato”. Il Fondo conclude spiegando che la mossa della Cina “non ha implicazioni dirette per i criteri usati  nel determinare la composizione” del Dsr. “Tuttavia, un tasso di cambio determinato più dal mercato faciliterebbe le operazioni Dsr nel caso in cui il renminbi dovesse essere in futuro incluso nel basket di valute”.
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La Cina divide il mercato. La decisione della Banca centrale del paese asiatico di far svalutare lo yuan (o renminbi) per tre giorni di seguito nei confronti del dollaro (1,9% la prima volta, 1,6% la seconda e poco più dell’1% la terza) sta creando schieramenti contrapposti sulle motivazioni della scelta e sugli effetti che questa potrà avere. Le conseguenze immediate sono state un terremoto sui mercati equity e il fiorire di dubbi sulla tenuta della crescita della prima economia emergente oltre che della congiuntura globale. “Reazioni esagerate”, taglia corto Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. Dal 2005 la Cina non ha fatto altro che rafforzare la sua valuta contro il dollaro. Le svalutazioni di questi giorni, per ora, sono poca cosa rispetto ai livelli a cui erano arrivati".
Cosa vuole la Cina
Sulle motivazioni che hanno spinto la Cina a muoversi le idee sono contrapposte. Le azioni “sono sensate a livello economico e non rappresentano l'inizio di una guerra valutaria o il tentativo di far ripartire la crescita”, spiega uno studio di Standard & Poor’s. Secondo l’agenzia di rating, l'iniziativa di Pechino è più probabilmente legata “a una correzione tecnica” che punta a migliorare il funzionamento del mercato o a uno sforzo per rispettare le condizioni del Fmi per far includere lo yuan il prima possibile nel paniere di valute che costituisce i Diritti speciali di prelievo (Dsr, riserve di asset internazionali il cui valore si basa su un basket di valute chiave). “L’argomentazione che la Cina stia cercando di sostenere la crescita indebolendo la propria valuta e rafforzando l'export non ci sembra convincente”, scrive Paul Gruenwald, capo economista di S&P per l'Asia Pacifico. “Le esportazioni sono più un effetto della domanda estera. Il tasso di cambio che svolge un ruolo secondario. Non esiste alcun motivo per cui questo rapporto sia mutato”.
Resta il fatto che la decisione di Pechino ha già fatto scuola. In seguito alla decisione della PBoC, il Vietnam è intervenuto per mezzo della sua Banca centrale, aumentando del 2% la banda di fluttuazione del Dong vietnamita nel mercato valutario. “Non appena la People Bank of China ha mostrato le armi con le quali vuole sostenere l'economia cinese, export-dipendente, i competitor asiatici ne hanno pagato le conseguenze”, spiega uno studio di Saxo Bank. “Il sospetto, ora, è che tutte le altre autorità monetarie della regione asiatica si adegueranno per difendere le loro valute ed evitare rallentamenti nei mercati interni. Tali impatti, però, potrebbero uscire dai confini asiatici, mettendo in stato di allerta la Bce e la BoJ, che vedrebbero scendere in campo un nuovo concorrente nella guerra valutaria globale”.
Il Paese del Drago, comunque, fa paura. “La Cina ha preso atto del fatto che la sua economia non è più forte come una volta e ha deciso di tornare ad essere competitiva sul mercato globale”, spiega Johnson di Morningstar. “Questo è quello che fa paura veramente agli altri paesi. Bisogna poi aggiungere che la decisione di Pechino avrà effetti deflattivi sulla congiuntura mondiale proprio nel momento in cui si cerca di andare verso una crescita dell’inflazione per consolidare la ripresa economica.
Il benvenuto dell’Fmi
La nuova situazione innescata dalla Cina, intanto, è finita inevitabilmente sotto la lente del Fondo monetario internazionale secondo cui il paese asiatico “può e dovrebbe puntare a raggiungere un sistema di tassi di cambio flessibile entro due o tre anni”. L'istituto di Washington dice di giudicare come un “passo benvenuto” il nuovo meccanismo adottato dalla Banca centrale cinese per determinare il fixing del renminbi visto che “dovrebbe permettere alle forze del mercato di avere un ruolo maggiore nel determinare il tasso di cambio”. Del resto era stato proprio il Fondo, il 5 agosto, a dire che la Cina doveva fare di più per liberalizzare il suo sistema valutario al fine di far conquistare lo allo yuan lo status di valuta di riserva all'interno del basket di cui fanno parte dollaro americano, euro, sterlina e yen.
Ma l'Fmi precisa anche che l’esatto impatto della mossa di Pechino “dipenderà da come il nuovo meccanismo sarà implementato”. Il Fondo conclude spiegando che la mossa della Cina “non ha implicazioni dirette per i criteri usati  nel determinare la composizione” del Dsr. “Tuttavia, un tasso di cambio determinato più dal mercato faciliterebbe le operazioni Dsr nel caso in cui il renminbi dovesse essere in futuro incluso nel basket di valute”. 

La Cina divide il mercato. La decisione della Banca centrale del paese asiatico di far svalutare lo yuan (o renminbi) per tre giorni di seguito nei confronti del dollaro (1,9% la prima volta, 1,6% la seconda e poco più dell’1% la terza) sta creando schieramenti contrapposti sulle motivazioni della scelta e sugli effetti che questa potrà avere. Le conseguenze immediate sono state un terremoto sui mercati equity e il fiorire di dubbi sulla tenuta della crescita della prima economia emergente oltre che della congiuntura globale. “Reazioni esagerate”, taglia corto Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. Dal 2005 la Cina non ha fatto altro che rafforzare la sua valuta contro il dollaro. Le svalutazioni di questi giorni, per ora, sono poca cosa rispetto ai livelli a cui erano arrivati".
Cosa vuole la Cina
Sulle motivazioni che hanno spinto la Cina a muoversi le idee sono contrapposte. Le azioni “sono sensate a livello economico e non rappresentano l'inizio di una guerra valutaria o il tentativo di far ripartire la crescita”, spiega uno studio di Standard & Poor’s. Secondo l’agenzia di rating, l'iniziativa di Pechino è più probabilmente legata “a una correzione tecnica” che punta a migliorare il funzionamento del mercato o a uno sforzo per rispettare le condizioni del Fmi per far includere lo yuan il prima possibile nel paniere di valute che costituisce i Diritti speciali di prelievo (Dsr, riserve di asset internazionali il cui valore si basa su un basket di valute chiave). “L’argomentazione che la Cina stia cercando di sostenere la crescita indebolendo la propria valuta e rafforzando l'export non ci sembra convincente”, scrive Paul Gruenwald, capo economista di S&P per l'Asia Pacifico. “Le esportazioni sono più un effetto della domanda estera. Il tasso di cambio che svolge un ruolo secondario. Non esiste alcun motivo per cui questo rapporto sia mutato”.
Resta il fatto che la decisione di Pechino ha già fatto scuola. In seguito alla decisione della PBoC, il Vietnam è intervenuto per mezzo della sua Banca centrale, aumentando del 2% la banda di fluttuazione del Dong vietnamita nel mercato valutario. “Non appena la People Bank of China ha mostrato le armi con le quali vuole sostenere l'economia cinese, export-dipendente, i competitor asiatici ne hanno pagato le conseguenze”, spiega uno studio di Saxo Bank. “Il sospetto, ora, è che tutte le altre autorità monetarie della regione asiatica si adegueranno per difendere le loro valute ed evitare rallentamenti nei mercati interni. Tali impatti, però, potrebbero uscire dai confini asiatici, mettendo in stato di allerta la Bce e la BoJ, che vedrebbero scendere in campo un nuovo concorrente nella guerra valutaria globale”.
Il Paese del Drago, comunque, fa paura. “La Cina ha preso atto del fatto che la sua economia non è più forte come una volta e ha deciso di tornare ad essere competitiva sul mercato globale”, spiega Johnson di Morningstar. “Questo è quello che fa paura veramente agli altri paesi. Bisogna poi aggiungere che la decisione di Pechino avrà effetti deflattivi sulla congiuntura mondiale proprio nel momento in cui si cerca di andare verso una crescita dell’inflazione per consolidare la ripresa economica.
Il benvenuto dell’Fmi
La nuova situazione innescata dalla Cina, intanto, è finita inevitabilmente sotto la lente del Fondo monetario internazionale secondo cui il paese asiatico “può e dovrebbe puntare a raggiungere un sistema di tassi di cambio flessibile entro due o tre anni”. L'istituto di Washington dice di giudicare come un “passo benvenuto” il nuovo meccanismo adottato dalla Banca centrale cinese per determinare il fixing del renminbi visto che “dovrebbe permettere alle forze del mercato di avere un ruolo maggiore nel determinare il tasso di cambio”. Del resto era stato proprio il Fondo, il 5 agosto, a dire che la Cina doveva fare di più per liberalizzare il suo sistema valutario al fine di far conquistare lo allo yuan lo status di valuta di riserva all'interno del basket di cui fanno parte dollaro americano, euro, sterlina e yen.
Ma l'Fmi precisa anche che l’esatto impatto della mossa di Pechino “dipenderà da come il nuovo meccanismo sarà implementato”. Il Fondo conclude spiegando che la mossa della Cina “non ha implicazioni dirette per i criteri usati  nel determinare la composizione” del Dsr. “Tuttavia, un tasso di cambio determinato più dal mercato faciliterebbe le operazioni Dsr nel caso in cui il renminbi dovesse essere in futuro incluso nel basket di valute”.
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La scelta di Pechino di svalutare lo yuan lascia il mercato a interrogarsi sulle reali intenzioni della Tigre asiatica. La mossa darà una spinta all’export. Ma non solo.  - See more at: http://www.morningstar.it/it/news/141130/dalla-cina-con-stupore.aspx#sthash.VDeOndDP.dpuf
La scelta di Pechino di svalutare lo yuan lascia il mercato a interrogarsi sulle reali intenzioni della Tigre asiatica. La mossa darà una spinta all’export. Ma non solo.  - See more at: http://www.morningstar.it/it/news/141130/dalla-cina-con-stupore.aspx#sthash.VDeOndDP.dpuf

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