CHISSENEFREGA DEL "DI MAIO"....... E' LA CRESCITA IL PROBLEMA DEL PAESE!

Cautela. Il presidente della Bce Mario Draghi ha aggiunto ieri l’aggettivo «cauta» a una politica monetaria che continua a rimanere «paziente, persistente e prudente», con tassi fermi e che resteranno invariati per un prolungato periodo di tempo e ben oltre l’orizzonte del Qe. È infatti con «cautela», una parola che il presidente ha ripetuto più volte, che la Banca sta monitorando i primi segnali della «moderazione» della crescita registrati nel primo trimestre di quest’anno, che dovrebbero essere di natura «temporanea» e non permanente, a conferma di una «normalizzazione» e stabilizzazione e non di un «declino».
Ma il tutto è da confermarsi e a questa moderazione la Bce guarda «non con indifferenza» ma con forte interesse e con «mano ferma». È poi altrettanto un invito alla cautela «la maggiore preminenza» del rischio globale collegato al protezionismo, il cambio euro/dollaro che si è stabilizzato ma chissà per quanto, e va tenuto d’occhio. E se i rendimenti dei Bund dovessero salire al punto di rappresentare una «stretta non voluta», la Bce resta pronta a intervire per evitare deragliamenti dal percorso della stabilità dei prezzi.
Insomma sarà proprio in virtù di tanti fattori che richiedono «cautela» e «prudenza» che Draghi ha subito detto, in risposta alla prima domanda ieri, che il consiglio direttivo «non ha discusso la politica monetaria di per sé». Un linguaggio dunque chiaramente ancora molto accomodante: tanto che sul mercato c’è già chi posticipa le attese e vede l’annuncio delle novità sul tapering non più in giugno ma in luglio. Mentre per il primo rialzo dei tassi, il mercato deve convincersi che per esserci l’anno prossimo avrà bisogno di tante conferme su inflazione, crescita e rischi globali.
L’andamento dell’inflazione è tale da confortare la Bce nel raggiungimento del suo target, è stato ribadito ieri, ma c’è ancora bisogno di una politica monetaria accomodante «ampia». Anche la crescita resta «solida e diffusa», vigorosa e generalizzata, e in questo il linguaggio non è cambiato, rimane positivo e invariato: Draghi ha voluto ricordare che la crescita al 2,4% del 2017 è lapiù alta dal 2007 e che la normalizzazione era prevedibile. In alcuni casi tuttavia il calo degli indicatori economici, come quello sulla fiducia, è stato di una pesantezza inaspettata, ma la Bce ne rileva per ora una natura temporanea, che però dovrà essere confermata con continuo monitoraggio, che tolga il dubbio di correzioni permanenti.
I rischi per le prospettive di crescita «restano sostanzialmente bilanciati nell’area dell’euro», e anche fin qui nulla di nuovo ieri (se non la sostituzione della parola essenzialmente), ma è stato rafforzato il riferimento indiretto alla guerra dei dazi, perchè questa volta «hanno acquistato più preminenza i rischi connessi a fattori di carattere globale, fra cui la minaccia di maggiore protezionismo». Draghi ha ribadito che quel che si è visto sui dazi per ora è modesto ma quel che preoccupa di più la Bce è l’impatto «profondo e rapido» sulla fiducia e dunque sulle prospettive di crescita.
Altra cautela è dettata dalla fragilità dell’Unione monetaria. Draghi ha ribadito che l «Ume resta fragile» e di questo i politici che stanno discutendo le riforme per una maggiore integrazione finanziaria «ne sono consapevoli»: «possiamo esserne certi di questo». Ancora una volta ieri il Consiglio direttivo ha esortato «ad adottare misure specifiche e incisive per il completamento dell’unione bancaria e dell'unione dei mercati dei capitali», che sono «riforme essenziali» . È senza ombra di dubbio, ha detto il presidente, che nel 2012 tutte le decisioni su Unione bancaria, SSM, SRB, SRF e ESM sono state prese per affrontare «fragilità evidenti in quel momento ma che esistevano già prima della crisi». Il progresso su questi fronti adesso è in ritardo, ma non spetta alla Bce decidere, è una scelta politica. «Alla Bce non resta che essere paziente».
Ieri Vítor Constâncio ha fatto la sua ultima apparizione in conferenza stampa, terminando il suo mandato di vice-presidente: otto anni impegnativi che l’hanno visto tra i protagonisti (ruolo che Draghi gli ha riconosciuto come «fondamentale e fatto con passione») di una svolta epocale, quella che lui stesso ha definito come l’ «entrata delle politiche non convenzionali nella cassetta degli attrezzi del moderno banchiere centrale». «Non si tornerà più alla banca centrale come era prima della grande crisi», ha convenuto Constâncio, ammettendo apertamente che la Banca gli mancherà. È prevedibile che anche lui mancherà alla squadra delle oltre 2.500 persone in Bce: Constâncio è molto apprezzato a tutti i livelli in Banca per la sua insuperabile competenza e per il suo buon carattere, un collante indispensabile in un’istituzione che tiene insieme 19 Paesi molto eterogenei. Draghi già ieri ha annunciato con parole di benvenuto l’arrivo del nuovo vice, lo spagnolo Luis de Guindos Jurado. Un politico, con un temperamento forte, prende il posto di un tecnico dal carattere morbido: anche questo passaggio, in Bce, richiederà pazienza e cautela. 
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Nelle previsioni ufficiali della crescita vince la prudenza, che fissa un aumento del Pil dell’1,5% quest’anno e poi una discesa da un decimale all’anno nel 2019 e nel 2020. Sul debito pesa invece l’effetto degli interventi salva-banche, che si riflettono su un passivo 2018 al 130,8% del Pil, cioè un punto sotto i livelli del 2017 ma otto decimali sopra le previsioni di autunno. Nessun effetto strutturale, invece, sul deficit, che dopo il 2,3% del 2017 conferma la propria discesa all’1,6% e allo 0,9% il prossimo anno, per arrivare al pareggio sostanziale nel 2020. Senza il sostegno agli istituti di credito, il 2017 avrebbe chiuso con un indebitamento netto all’1,9% del Pil, due decimali sotto rispetto alle previsioni che secondo il governo cancellerebbero il rischio di una richiesta di correzioni da Bruxelles.
Il Def approvato ieri dal consiglio dei ministri, limitato al quadro tendenziale come anticipato su queste colonne, offre quello che secondo il premier Paolo Gentiloni è il consuntivo di un’azione di governo «fondata su serietà, sostegno all’espansione e credibilità dei conti». Alla prudenza delle tabelle fa da contraltare la «convinzione personale» del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan su una crescita potenziale italiana più alta, «vicina al 2%», ma a patto che «le riforme di questi anni siano confermate e rafforzate». La cinghia di trasmissione tra misure di finanza pubblica ed economia reale, del resto, è lunga e richiede tempo. I contratti a tempo indeterminato, 14,935 milioni, sono a meno di 100mila posti dal picco pre-crisi, ma la gelata dell’economia ha aumentato le disuguaglianze come attesta l’allegato al Def dedicato agli indicatori sul «benessere equo e sostenibile».
Proprio lo stallo politico offre uno dei tanti ingredienti dell’incertezza che domina lo scenario, e che è alimentata anche dai rischi geopolitici e dai venti internazionali di guerra commerciale. Le stesse incognite evocate ieri dal presidente della Bce Mario Draghi tornano nel Def atteso ora in Parlamento e a Bruxelles sotto forma di ricadute possibili sul Pil italiano. Lo «shock protezionistico» che si potrebbe produrre con un corto-circuito fra attacco Usa e risposta cinese, secondo un Focus elaborato dal Mef, potrebbe tagliare la nostra crescita di tre decimali già quest’anno, di sette il prossimo e di otto dal 2020: numeri che cambierebbero molto le stime a legislazione vigente.
Questi punti interrogativi si riflettono anche sulla dinamica del debito. Il 131,8% del 2017 disegna una mini-limatura rispetto all’anno prima, con uno scalino molto più ridotto di quello atteso senza le ricadute contabili dei salva-banche. A differenza di quanto accade sul deficit, che è un flusso, sullo stock di debito l’effetto ricade anche sugli anni successivi, portando la stima del 2018 a quota 130,8% del Pil, otto decimali sopra l’obiettivo indicato dalla Nadef. A spingere in alto il dato, oltre al salva-banche, c’è una crescita del Pil nominale inferiore al previsto e un aumento delle giacenze di liquidità in vista delle maggiori scadenze di titoli del debito pubblico nel 2019. Per i prossimi anni il Def mette in agenda una flessione ambiziosa (128% nel 2019, 124,7% nel 2020 e 122% l’anno dopo), grazie a una stima che però incorpora una forte riduzione del fabbisogno e tre decimali all’anno di privatizzazioni: obiettivo, quest’ultimo, sempre rilanciato dai documenti di finanza pubblica ma mancato nelle realizzazioni. Anche con la curva attuale, l’Italia sfora la regola europea sul debito per un 3,4% del Pil nel 2017, con una riduzione della forbice negli anni successivi.
L’evoluzione del quadro di finanza pubblica resta poi appesa alle modalità che la politica vorrà percorrere per disattivare gli aumenti Iva del prossimo anno, che tutti i partiti dicono di voler scongiurare impegnando il prossimo governo già con le risoluzioni parlamentari al Def. Difficile ipotizzare però nuovi spazi di deficit in arrivo da Bruxelles, perché la crescita più solida riduce la distanza rispetto al Pil potenziale (e quindi le ragioni a favore di politiche più espansive) e la battaglia per escludere dai vincoli nuove «spese eccezionali» è tutta da giocare. Sul punto va però segnalato che la riduzione degli sbarchi non riduce la spesa per la gestione dei migranti, voce che secondo il Def passerà dai 4,36 miliardi del 2017 a 4,65 miliardi in caso di «scenario costante», e potrà superare i 5 miliardi con una ripresa degli sbarchi.


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Isabella Bufacchi
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